de Anima: le gioie del Paradiso

Quando corpus morietur fac ut animae donetur paradisi gloria.

 Jacopone da Todi, Stabat Mater, “Quando il corpo morirà, fa che all’anima sia donata la gloria del Paradiso”.

 

Dio è felicità

…l’atto del suo vivere è piacere…

Aristotele, Metafisica, XII, 7, 1072b, 15-20.

 

Dio è amore, ma anche gioia e felicità. Quante volte, camminando in montagna, mi sono trovato davanti a visioni magiche, di una bellezza entusiasmante e fuggente, creata da luci e vapori che, trasformando il paesaggio, lo rendevano unico non solo nello spazio, ma nell’attimo fuggente! Ogni volta mi accade di pensare che quella visione è lì apposta per me: a nessun altro sarà dato di contemplarla, a nessun altro Dio pensava quando preparava quella meraviglia, se non a me.

Talora allargo le braccia, immergendomi nella luce, e ringrazio Dio con tutto il cuore, ancor di più conoscendo la mia miseria ed indegnità di tali attenzioni!

E come rimarrebbe, e rimane, dispiaciuto quando, dopo aver pensato e creato apposta per me una simile meraviglia, io, distratto o maldisposto dai pensieri delle cose di quaggiù, passo indifferente e malaccorto, senza vedere o sentire quanto preparato, mentre Lui era lì che aspettava la mia ammirazione!

 

Ancora, mi è accaduto di pensare assaggiando qualche leccornia, che anche il sapore più prelibato è stato pensato e progettato personalmente da Dio, apposta per noi!

Quale mirabile artista, quale incomparabile fonte di bellezza e di gioia è Dio!

 

C.Lewis, l’autore di Le cronache di Narnia, scrive, nel suo Lettere a Berlicche, che ogni cosa buona, ogni piacere non può venire che da Dio: dal Demonio e dall’uomo (e dalla donna)  possono venire solo il cattivo uso dei piaceri, ma nessun vero piacere originario! Scrive il demone Berlicche al nipote Malacoda:

 

Non dimenticare mai che quando stiamo trattando con il piacere, con qualsiasi piacere, nella sua forma sana e soddisfacente, siamo sul terreno del Nemico [Dio]. …il piacere è un’invenzione Sua, non nostra. I piaceri li ha inventati Lui. Finora tutte le nostre ricerche non ci hanno reso capaci di produrne neppure uno. Tutto quanto ci è dato di fare è di incoraggiare gli uomini a servirsi dei piaceri che il Nemico ha prodotto, nei tempi e nei modi, o nella misura che ha loro proibito.

C.S. Lewis, Le lettere di Berlicche, IX, Mondatori, Milano 19893, p. 38.

 

Tesi confermata da Sant’Agostino:

Non ergo ab alio sunt magna bona, et ab alio parva bona: sed et magna et parva bona non sunt nisi a summo bono, quod est Deus.

(Infatti i grandi beni non derivano da una causa ed i piccoli da un’altra: ma i beni, e i grandi e i piccoli, non derivano se non dal Sommo Bene, cioè da Dio).

Agostino, La natura del Bene, 12, Rusconi, Milano 1995, p. 131.

 

Ed ecco cosa scrive Boezio, nel  De consolatione:

Igitur deum esse ipsam beatitudinem necesse est confiteri…beatitudinem et deum summum bonum esse collegimus; quare ipsam necesse est summam esse beatitudinem quae sit summa divinitas…Nam quoniam beatitudinis adeptione fiunt homines beati, beatitudo vero est ipsa divinitas, divinitatis adeptione beatos fieri manifestum est. …

(Dunque si deve necessariamente ammettere che Dio è la felicità stessa…la felicità e Dio sono il sommo bene; perciò è necessario che la somma felicità sia la stessa cosa che la somma Divinità… Posto che gli uomini divengono felici quando conseguono la felicità, e che la felicità è la Divinità stessa, è evidente che gli uomini divengono felici quando acquisiscono la Divinità. Ma come i giusti divengono tali acquisendo la giustizia, ed i sapienti la sapienza, così è necessario che coloro i quali hanno acquisito la Divinità divengano dei. Ogni uomo beato è dunque Dio. Per natura certo Egli è uno; ma nulla vieta che per partecipazione ve ne siano quanti si voglia.)

S.Boezio, De consolatione philosophiae, III, 10, 55-79, Rusconi, Milano 1996, pp. 134-137.

 

Poiché Dio è la felicità stessa, l’uomo, in questa ardita tesi di Boezio, quando è felice, partecipa della divinità!

 

In Te, o Signore, non mancherò di nulla

In Dio è presente ogni cosa: vi è la Sua precipua natura fatta di Amore e di Letizia, vi è ogni contenuto spirituale di Bontà, di Bellezza, di Conoscenza generato da ogni altro spirito, vi è, personalmente, ogni altro spirito, presente in Lui nella sua totalità (in carne ed ossa), vi sono tutte le sensazioni piacevoli, anche quelle materiali (cioè che ci appaiono generate dalla materia ma che sono sempre realtà intellettuali).

Il contatto con Dio dà quindi allo Spirito la possibilità di avere, conoscere, contattare e sentire ogni altra realtà spirituale, ma anche materiale (nel senso specificato), che egli desideri.

I piaceri quindi che Dio può trasmetterci sono di varia, o meglio, di infinita natura: contemplativi, sentimentali, conoscitivi, razionali, o addirittura sensibi

In paradiso, infatti, saremo completi di anima e di corpo, cioè della capacità di sentire anche le percezioni corporee (che non significa materiali, poiché le percezioni sono solo mentali).

Starà a noi, alla nostra capacità di chiedere, il poter accedere più o meno in profondità a tanta gioia. Saremo come in una biblioteca infinita, in cui è disponibile ogni libro mai scritto: la possibilità di accesso sarà però limitata dalle nostre conoscenze di autori e titoli; quel che non conosciamo, ci resterà irraggiungibile.

Ecco a cosa serve la nostra esperienza terrena: a saper godere delle gioie celesti, che non ci saranno negate se non dalla nostra grossolanità e miseria spirituale!

 

…nulli beatus deest aliquod bonum desiderandum…Contigit autem aliquem perfectius frui Deo quam alium, ex eo quod est melius dispostus vel ordinatus ad eius fruitionem. Et secundum hoc potest aliquis alio beatior esse.

(…a  nessun beato manca alcunché possa essere desiderato…Accade però che qualcuno fruisce più perfettamente di Dio di un altro, in quanto meglio disposto ed ordinato a questa fruizione. E per questo qualche beato può essere più felice di un altro.)

S.Tommaso, Summa Theologiae, Utrum unus homo possit esse beatior altero, I-II, q. 5, aa. 2.

 

La visione dei beati nutriti dell’essenza divina, in una forma immaginosa ed affascinante, come fiori visitati da api luminose, cioè da angeli che fanno la spola tra loro e l’Amore infinito, è cantata da Dante in questi versi:

E vidi lume in forma di riviera

Fluido di fulgore, intra due rive

Dipinte di mirabil primavera.

   Di tal fiumana uscian faville vive,

   e d’ogni parte si mettian ne’ fiori,

   quasi rubin che oro circunscrive.

Poi, come inebriati dalli odori,

riprofondavan sé nel miro gurge;

e s’una entrava,  un’altra n’uscia fori.

Dante, Paradiso, XXX, 61-69.

 

Il piacere celeste sarà la contemplazione

Molti deridono questa descrizione della beatitudine celeste. La contemplazione del volto di Dio per tutta l’eternità sembra una cosa troppo povera e noiosa.

In questo si vede la dabbenaggine della nostra povera cultura laica, che non sa più recuperare neppure la tradizione più alta del paganesimo.

In realtà la contemplazione divina rappresenta l’appagamento più alto che l’uomo possa sperare, tenendo conto che in Dio ogni altra cosa, idea, immaginazione e sensazione sarà direttamente raggiungibile.

Infatti, anche i cosiddetti piaceri materiali sono goduti interamente nella mente.

Il primo a porre esplicitamente la felicità dell’uomo nell’attività contemplativa, cioè nell’attività razionale pura, fu Aristotele:

Ma se la felicità è attività conforme a virtù, è logico che lo sia conformemente alla virtù più alta: e questa sarà la virtù della nostra parte migliore. Che sia l’intelletto o qualche altra cosa ciò che si ritiene che per natura governi e guidi e abbia nozione delle cose belle e divine, che sia un che di divino o sia la cosa più divina che è in noi, l’attività di questa parte secondo la virtù che le è propria sarà la felicità perfetta.. S’è già detto, poi, che questa attività è attività contemplativa. Questa attività, infatti, è la più alta, giacché l’intelletto è la più alta di tutte le realtà che sono in noi, e gli oggetti dell’intelletto sono i più elevati; inoltre, è la cosa più continua delle nostre attività: infatti, possiamo contemplare in maniera più continua di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa.

Aristotele, Etica Nicomachea, X, 75, Rusconi, Milano 19984, p. 393.

 

Prima di Aristotele, però, già Platone individua in una visione della bellezza e della bontà divina il vertice spirituale raggiungibile dall’uomo: il famoso passo del Simposio è certamente la descrizione di una esperienza estatica:

E neppure il bello si mostrerà a lui come un volto, o come delle mani, né come alcun’altra delle cose di cui il corpo partecipa; né si mostrerà come un discorso e come una scienza, né come qualcosa che è in qualcos’altro, ad esempio in un essere vivente, oppure in terra o in cielo, o in qualcos’altro, ma si manifesterà in se stesso, per se stesso, con se stesso, come forma unica che sempre è.

Platone, Simposio, 211 C, Rusconi, Milano 19973, p. 205.

Ecco la descrizione della condizione dell’anima che, dopo la morte, raggiunge gli dei:

E allora, un’anima che si è preparata in tal modo, non se ne andrà verso ciò che le assomiglia, verso ciò che è invisibile, divino, immortale, intelligente, dove, una volta giunta, le toccherà di essere veramente felice, libera dagli erramenti, dalle stoltezze, dalle paure, dai selvaggi amori e dagli altri mali umani, passando tutto il resto del tempo con gli dei, come si racconta degli iniziati?

Platone, Fedone, 81 A, Rusconi, Milano 19992, p. 171.

 

Anche Agostino ci parla della contemplazione, come del sommo bene:

In quibus animae tantum rationali et intellectuali datum, ut eius aeternitatis contemplatione perfruatur atque afficiatur ex ea aeternamque vitam possit mereri.

(e che fra esse solo all’anima razionale ed intellettuale è stato concesso di godere della contemplazione della Sua eternità, di esserne arricchita e di poter meritare la vita eterna)

Agostino, De vera religione, III, 3,  Rusconi, Milano 1997, p. 31.

 

La tradizione aristotelica viene raccolta da Tommaso d’Aquino, nella sua definizione di beatitudine:

…idem apparet ex hoc quod in vita contemplativa homo communicat cum superioribus, scilicet cum Deo et angelis, quibus per beatitudinem assimilatur….

Et ideo ultima et perfecta beatitudo, quae expectatur in futura vita, tota consistit in contemplatione. …

(… la vita contemplativa affianca l’uomo agli esseri superiori, cioè a Dio e agli angeli, ai quali egli diviene simile in forza della beatitudine.

Perciò la felicità ultima e perfetta, che ci attende nella vita futura, consiste essenzialmente nella contemplazione. Invece la beatitudine imperfetta, quale è possibile avere al presente, consiste innanzi tutto e principalmente nella contemplazione; in modo secondario però, consiste anche nelle operazioni dell’intelletto pratico che regolano le azioni e le passioni umane, come dice Aristotele).

Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I-II, q. 3, aa. 5, vol. VIII, Salani, Firenze, 1951-75, p. 98-101.

 

Dante, aristotelico e tomista, parla della contemplazione di Dio in questi versi:

Così la mente mia, tutta sospesa,

mirava fissa, immobile ed attenta,

e sempre di mirar faciesi accesa.

   A quella luce cotal si diventa,

   che volgersi da lei per altro aspetto

   è impossibil che mai si consenta;

però che ‘l ben, ch’è del volere obietto,

tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella

è difettivo ciò ch’è lì perfetto.

Dante, Paradiso, XXXIII, 97-105.

 

Ogni bene, che si possa desiderare, è presente in Dio, così che mai la nostra volontà si può distogliere dal desiderarne la visione, poiché qualsiasi altra cosa potremmo volere, in realtà è presente in Dio in modo perfetto, mente fuori da Lui è imperfetta.

 

Ecco come ci parla Cartesio della contemplazione di Dio:

Sed priusquam hoc diligentius examinem, simulque in alias veritates quae inde colligi possunt inquiram, placet hic aliquantiu in ipsius Dei contemplatione immorali, eius attributa apud me expendere, & immensi huius luminis pulchritudinem, quantum caligantis ingenii mei acies ferre poterit, intueri, admirari, adorare. Ut enim in hac sola divinae majestatiscontemplatione summam alterius vitae foelicitatem consistere fide credimus, ita etiam jam ex eadem, licet multo minus perfecta, maximam, cujus in hac vita capaces simus, voluptatem percipi posse experimur.

(Ma prima di esaminare ciò più attentamente e insieme indagare altre verità che possono essere tratte da lì [dall’idea di Dio, ndr], mi sembra qui opportuno indugiare alquanto nella contemplazione di Dio stesso, ponderando gli attributi dentro di me, scrutare profondamente, ammirare, adorare la bellezza di quest’immensa luce, per quanto potrà sopportare lo sguardo del mio ingegno abbagliato. Come infatti crediamo  per fede che la somma felicità dell’altra vita consista in questa sola contemplazione della maestà divina, così anche ora sperimentiamo di poter provare la massima voluttà di cui siamo capaci in questa vita, dalla stessa [contemplazione], per quanto meno perfetta).

R. Cartesio, Meditazioni Metafisiche, III, 59, Rusconi, Milano 1998, pp. 216-217.

 

E per ultimo citiamo Hegel, che ci dice come la ragione, che strumentalmente utilizziamo per la nostra vita pratica, trova la sua realizzazione piena nella contemplazione dell’Idea:

Se, come dice Aristotele, la theoria è la suprema beatitudine, allora quelli che partecipano a questo godimento sanno cosa vi trovano: l’appagamento della necessità della loro natura spirituale….la partecipazione più fondamentale e profonda è tanto più solitaria entro sé e silenziosa verso l’esterno.

G.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Premessa alla 3° edizione, Rusconi, Milano 1996, p. 83.

Lo spirito, in quanto senziente ed intuente, ha per oggetto le cose sensibili; in quanto è fantasia, ha per oggetto delle immagini; in quanto volontà, dei fini ecc. In opposizione a queste forme, o semplicemente a differenza di esse, lo spirito procura l’appagamento alla propria suprema interiorità, cioè al pensiero, e guadagna il pensiero come proprio oggetto. In tal modo lo spirito perviene a se stesso nel senso più profondo: infatti il suo principio è il pensiero.

G.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 11,  Rusconi, Milano 1996, p. 113.

 

Ognuno deve arricchire lo Spirito

Immagino che quando ci presenteremo dinnanzi a Dio, consegneremo il nostro patrimonio spirituale, cioè quegli arricchimenti dello Spirito che avremo saputo conquistare durante la vita terrena, perché questi siano messi a disposizione di tutti gli altri spiriti.

Potranno essere di varia natura: santità, conoscenza, arte, abilità, forza d’animo, virtù, coraggio e sapienza: tutto sarà accettato, purché interessante per gli altri. Infatti le cose troppo usuali non risulteranno interessanti a nessuno, nessuno chiederà di conoscere o contattare quello che già ha avuto a iosa su questa terra! “Almeno una cosa tua, una cosa diversa dal solito, non hai proprio nulla da portarci?”

E tutte queste cose andranno ad arricchire il patrimonio comune agli spiriti beati: là il filosofo converserà con Aristotele, il guerriero con Cesare o Napoleone, il mistico con san Francesco o con Mosé, il goloso incontrerà l’Artusi o Trimalcione (ma attenti, dopo centomila anni di manicaretti, se non avranno qualche altra cosa da chiedere, cominceranno ad annoiarsi, e diranno “ma che inferno è mai questo?”).

I più smaliziati (quelli che avranno perlomeno letto lo pseudo Dionigi) avranno già scoperto i reparti angelici, dove musiche, pensieri, sensazioni ci saranno del tutto nuovi e sconosciuti. E sopra e intorno a tutto ci abbraccerà l’Amore divino:

Nel suo profondo vidi che s’interna

Legato con amore in un volume

Ciò che per l’universo si squaderna;

   sustanze ed accidenti e lor costume,

   quasi conflati insieme, per tal modo

   che ciò ch’io dico è un semplice lume.

Dante, Paradiso, XXXIII, 85-90.

 

Della questione se un beato possa essere più beato di un altro.

La precedente citazione di S.Tommaso mi ricorda questo tema: può un beato (cioè un’anima in Paradiso) essere più felice di un altro?

La questione era evidentemente molto discussa nel Medio Evo, visto che ne parla sia S.Tommaso nella Summa, sia Dante nella Divina Commedia.

Infatti ci si chiedeva: se tutti i beati fossero uguali, non sarebbe questa una ingiustizia, visto che nella vita non tutti sono stati ugualmente buoni? Ma se esistesse differenza di premio, questo non comporterebbe una felicità imperfetta per i meno premiati, che potrebbero invidiare la sorte dei santi maggiori? E una non perfetta felicità, sminuirebbe la perfezione della gioia celeste.

In linea di massima reputiamo queste domande oziose e petulanti, visto che la risposta non ci è stata rivelata e non ci serve per raggiungere la salvezza.

E’ però interessante vedere come hanno risposto i due grandi geni teologici del ‘300.

 

  • La risposta di Dante.

Dante affronta l’argomento durante il suo incontro con Piccarda Donati, che egli aveva conosciuto in vita, ma la cui bellezza dovuta alla trasfigurazione celeste, per un attimo non gli permette di riconoscere:

Io fui nel mondo vergine sorella,

e se la mente tua ben sé riguarda

non mi ti celerà l’essere più bella

Ma riconoscerai ch’io son Piccarda.

Dante, Paradiso, III, 46-49.

 

Piccarda Donati era stata suora, ma fu rapita dal convento contro la sua volontà, ed era poi stata sposa e madre. Questa, comunque, imperfezione nella sua vita, l’aveva destinata ad un cielo minore del Paradiso, quello della Luna, dove sono le anime di coloro che hanno mancato ai voti non per loro volontà.

Questa destinazione minore, dà occasione a Dante di porre il quesito di cui parliamo, e di avere questa risposta: le anime beate hanno uniformato la loro volontà a quella di Dio, e pertanto non sentono alcuna pena per il differente trattamento tra santi.

Ma dimmi: voi che siete qui felici,

desiderate voi più alto loco

per più vedere e per più farvi amici?

Dante, Paradiso, III, 64-66.

Risponde Piccarda:

Frate, la nostra volontà quïeta

Virtù di carità, che fa volerne

Sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta….

Anzi è formale a questo beato esse

Tenersi dentro alla divina voglia,

per ch’una fansi nostre voglie stesse;

Dante, Paradiso, III, 70-72, 79-81.

 

  • La risposta di Tommaso.

Come abbiamo già visto più sopra, Tommaso afferma che in effetti la fruizione di Dio è felicità perfetta per ogni beato. Infatti nessun beato potrà lamentare di non avere qualcosa che egli desideri. Ma sarà proprio nella sua capacità di desiderare, che egli avrà affinato e perfezionato su questa terra, che si creerà la differenza di godimento dei beni che Dio darà a ciascuno secondo il suo desiderio.

 

  • Nostre considerazioni.

La risposta di Tommaso mi sembra migliore di quella di Dante. Dante, infatti, sembra dipingere degli essere diversi da quelli terreni, la cui volontà è coartata, e il cui godere sembrerebbe quasi un leggero inganno.

Dobbiamo comunque riconoscere che l’uniformarsi della nostra volontà a quella di Dio è uno dei temi più belli e convincenti del grande poeta teologo:

All’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e ‘l velle

sì come rota ch’igualmente è mossa

l’Amor che move il sole e l’altre stelle.

Dante, Paradiso, XXXIII, 142-145.

La soluzione di Tommaso apre però ad altre considerazioni: infatti potremmo pensare, a questo punto, che anche l’Inferno potrebbe non differire, nella condizione oggettiva dell’anima, dal Paradiso. Sarebbe l’incapacità dell’anima malvagia, che ha rifiutato Dio e che continua a rifiutarlo, che le impedisce di goderne in alcun modo, senza che Dio si rifiuti ad alcuno.

Una tesi analoga a quella di Tommaso è contenuta nel mito platonico di Er: anche qui, la differente capacità dell’anima, affinata nella vita precedente, di volere e di scegliere la propria vita futura, è causa di differenza nel destino dei singoli, nel loro cammino verso la perfezione:

Meritava poi vedere come le singole anime sceglievano le proprie vite. Spettacolo insieme miserevole, ridicolo e meraviglioso…

…la maggior parte delle anime permutava mali con beni e beni con mali…

La maggioranza sceglieva secondo le abitudini contratte nella vita precedente.

Perché, se uno, quando arriva a questa nostra vita, pratica sempre sana filosofia,… ha buone probabilità, secondo le notizie da lì [dal mondo dell’al di là] riferite, non solo di essere felice in questo mondo, ma anche di compiere il viaggio da qui a lì e da lì a qui, non per una strada sotterranea ed aspra, ma liscia e celeste.

Platone, La Repubblica, X, XVI, 620, Opere Complete, 6, Laterza, Bari 1971, p. 351.

(indietro)                                                                                                                                 (segue)