Funzioni dello Stato: la Difesa

La difesa come primo compito dello Stato

La difesa da aggressioni esterne è probabilmente stata la prima causa della formazione di un’organizzazione statale e la prima funzione attribuita ad essa. La necessità di forme di difesa organizzata si fa sentire quando l’uomo cessa di essere solo cacciatore e inizia ad essere pastore ed agricoltore. Infatti, da quel momento, egli inizia ad essere una preda ambita da altri gruppi di uomini che, dalla caccia agli animali trovano più conveniente il darsi alla caccia dei loro simili.

Accanto a società dedite al lavoro pacifico, prosperano altre che trovano più facile appropriarsi con la violenza delle ricchezze altrui.

Fino a quando l’attività principale dell’uomo era la caccia, infatti, risultava poco conveniente aggredire un villaggio di cacciatori, armati ed abituati al combattimento con le fiere, piuttosto di cacciare direttamente gli animali per conto proprio, tanto più che il risultato della scorreria non poteva essere che una preda frutto della caccia di al massimo qualche settimana. Ma quando le attività divengono più sedentarie, ed agricoltura ed artigianato fanno sì che i villaggi siano prede allettanti, in quanto è possibile impadronirsi, in un sol colpo, del lavoro di un anno, per i prodotti agricoli, e di tempi ancor più lunghi per suppellettili, monili, attrezzi ed altri prodotti artigianali, allora cominciano ad apparire società dedite unicamente all’aggressione ed al saccheggio a danno delle popolazioni vicine o raggiungibili con scorrerie anche a lungo raggio.

Lo sviluppo dei commerci e della navigazione, poi, rendono ancora più conveniente il dedicarsi a forme di pirateria e banditismo a danno di carovane e flotte commerciali.

Allora le società più civilizzate iniziano ad organizzarsi in forme di difesa che utilizzano milizie ed eserciti permanenti, e costruiscono fortificazioni, torri di vedetta e luoghi di rifugio.

Questo comporta il nominare comandanti ed autorità, che formano il primo nucleo del potere statale. A loro volta, le società predone sono costrette ad organizzarsi anch’esse in gruppi armati e disciplinati, che obbediscono a comandanti scelti.

Successivamente, proprio la disponibilità di truppe armate attribuisce a questi comandanti ed alle loro coorti l’autorità suprema sull’intera società, e si sviluppa l’idea che lo Stato abbia ogni diritto sui propri cittadini, idea diffusa e sostenuta “sulla punta delle lance”, nei confronti di individui riottosi a sottomettersi ad una autorità che ancora non riconoscono.

 

 

Un poco di storia

Anche dopo la formazione di Stati grandi e potenti, la costante presenza di società predone costituì sempre un pericolo mortale per le civiltà organizzate. Accanto alle grandi civiltà sorte nelle zone temperate del mondo, dall’Europa fino alla Cina, da nord incombette sempre il pericolo delle incursioni delle tribù nomadi delle steppe, pericolo che, all’indebolirsi delle capacità di difesa delle civiltà, ne determinò di volta in volta la fine cruenta. Dalle invasioni barbariche che posero fine all’Impero Romano, alla conquista del potere nel mondo islamico da parte dei Turchi, alle scorrerie delle tribù mongole, che si spinsero fino ai confini dell’Europa e che resero vana la costruzione della grande muraglia, con la conquista della Cina, la storia è un lungo elenco di civiltà “invincibili” sottomesse e distrutte da popoli dediti alla caccia della preda umana.

Emblematico, ma questa volta a lieto fine, fu il caso dell’Europa del X secolo. In quel periodo la società europea, uscita con fatica dal buio causato dalle invasioni barbariche, attraverso la paziente opera educatrice e restauratrice dell’antica civiltà portata avanti dalla Chiesa, con i suoi vescovi cittadini ed i suoi monaci missionari, copisti ed agricoltori, si trovò in una situazione di pericolo drammatico per quel poco di attività economiche, agricoltura e commercio, che iniziavano allora ad espandersi.

Nell’estremo nord un popolo selvaggio e  feroce, i Vichinghi, costituite flotte di navi leggere e maneggevoli, terrorizzavano le popolazioni delle coste atlantiche con continue scorrerie e saccheggi, spinti fino al’interno del continente, risalendo i grandi fiumi. Nell’886 la stessa Parigi fu assediata da un esercito danese, che aveva risalito la Senna.

Al centro dell’Europa, una popolazione nomade proveniente dalle steppe, i Magiari od Ungari, eredi degli Unni, si stanziavano nella pianura pannonica, l’odierna Ungheria, da dove lanciavano annualmente spedizioni fin nel centro dell’Europa, saccheggiando e distruggendo. Germania, alta Italia e Francia erano mete di queste scorrerie, che si ripetevano ogni anno con terribile regolarità.

Da sud, alfine, la pirateria saracena, proveniente dall’Africa, dalla Spagna e dalla Sicilia, terrorizzava le sponde dell’intero Mediterraneo cristiano. I pirati saraceni giunsero a sbarcare nel sud della Francia, ed a costituirvi una base permanente per scorrerie che, attraverso l’alto Rodano, giungevano fino al Piemonte.

Non vi era quindi zona dell’Europa sicura da incursioni e saccheggi, e l’intero continente sembrava destinato ad un triste declino od alla sottomissione a popoli di diversa razza e civiltà.

Ma nel secolo X, con una serie di fatti che ha dell’incredibile o, meglio, del miracoloso, tutti e tre questi pericoli vengono eliminati e risolti.

 

  •  Il caso normanno

Nel 911, il re di Francia, Carlo il Semplice, vedendosi impossibilitato a fermare l’aggressione Vichinga, nomina il capo Vichingo, Rollone, detto il camminatore (*), suo feudatario e lo investe del titolo di duca delle terre alla foce della Senna. Rollone giura fedeltà al re di Francia, i suoi uomini da allora prendono il nome di Normanni, e Normandia si chiama la terra da loro acquistata. I Normanni, da pericolo per la civiltà europea, si trasformano in suo baluardo: non solo difenderanno la Francia dalle aggressioni degli altri popoli del Nord, ma una loro spedizione, di cui facevano parte undici fratelli, gli Altavilla, scacciava gli arabi dalla Sicilia, aiutando a risolvere definitivamente il pericolo saraceno.

Inizialmente i Normanni sbarcano in Calabria, e si scontrano con un esercito romano guidato dallo stesso pontefice, Leone IX. Vincono e catturano il papa, ma, avendolo nelle loro mani, gli giurano fedeltà e gli si sottomettono, divenendo difensori della Chiesa contro gli imperatori tedeschi.

Con questo, i Normanni riconfermano la loro disposizione ad integrarsi nelle civiltà, che inizialmente combattono, ma da cui sono evidentemente attirati.

Successivamente conquistano l’intera Sicilia e se ne fanno signori. Ruggero d’Altavilla sarà cantato dal Tasso come uno dei più valorosi partecipi della prima crociata.

 

(*) Pesava 140 chilogrammi, e nessun cavallo poteva reggerlo.

 

  •  Il caso magiaro

Nell’anno 955, un esercito magiaro si appresta all’ennesima scorreria nel cuore della ricca e fino allora indifesa terra tedesca. Ma stavolta la misura era colma. Il nuovo imperatore, Ottone I, figlio di Enrico l’Uccellatore e fondatore della grande dinastia sassone, con tre audaci iniziative diede inizio all’Europa moderna: la grande riforma della Chiesa, che la purificò dalla corruzione e dalla simonia; il drastico ridimensionamento del potere dei feudatari nei confronti dell’autorità dell’Impero ed infine la soluzione definitiva del problema costituito dagli Ungari.

Ottone raccoglie un combattivo esercito ed attende gli Ungari sui campi bavaresi.

Il 10 agosto 955, presso il fiume Lech, affluente del Danubio in prossimità di Augusta, si svolge la battaglia di Lechfeld, dove gli Ungari sono disfatti. Tornati a casa con le pive nel sacco, cessano definitivamente ogni attività predatoria, si convertono al cattolicesimo, per opera soprattutto del loro re Stefano e di sua moglie Giselda, e divengono strenui difensori dei confini europei contro i Turchi.

 

  •  Il caso saraceno

Dopo lunghe lotte con Bizantini, Italiani e Francesi, i Saraceni di Provenza, installatisi a Frassineto, vengono alla fine sconfitti e cacciati per sempre.

Nel 972,  Guglielmo il Liberatore (950-993), conte e marchese di Provenza si mette alla testa di una coalizione di nobili provenzali e nel corso del 973, a Tourtour, ottiene una schiacciante vittoria, che gli permette di conquistare la fortezza di Frassineto e di liberare la Provenza dalla presenza dei Saraceni.

 

 

 Qualche lettura al proposito:

 

Il cronista franco Guglielmo di Jumièges, sec. XI, racconta dell’omaggio del Normanno Rollone al re Carlo di Francia.

Rollone si rifiutava di baciare il piede a Carlo quando ricevette da lui il ducato di Normandia. Ma i vescovi gli dicevano: ‘Chi riceve un tale dono deve baciare il piede del re’. Egli rispondeva: ‘Giammai piegherò il ginocchio davanti al alcuno, e giammai gli bacerò il piede’. Tuttavia, spinto dalle preghiere dei Franchi, ordinò ad uno dei suoi guerrieri di farlo in sua vece. Costui prese il piede del re e lo portò alla bocca, ma lo baciò senza curvarsi e fece cadere il re per terra. Donde grandi scoppi di risa e grande tumulto nella folla. Tuttavia il re Carlo, Roberto duca di Francia, i conti e i grandi, i prelati e gli abbati si impegnarono con giuramento […] che egli otterrebbe e possederebbe la terra di Normandia […]”.

 

Ecco la cronaca della battaglia della Lech, tratta dalle Gesta dei Sassoni di Widukindo di Korvey, abate sassone alla corte di Ottone I.

Poiché i razziatori di entrambi gli eserciti avevano dato notizia che le due armate non distavano molto l’una dall’altra, fu prescritto un digiuno e tutti ricevettero l’ordine di tenersi pronti a combattere il giorno seguente. I soldati si alzarono all’alba, si scambiarono la pace, e promisero con giuramento prima al comandante poi vicendevolmente che non avrebbero risparmiato il loro impegno. Quindi uscirono dall’accampamento, in numero di quasi otto legioni, con le insegne spiegate, e si misero in marcia seguendo un itinerario difficile ed impervio, che offriva però un riparo di arbusti contro le implacabili frecce del nemico. Le tre prime legioni dell’armata erano composte di Bavari, comandati dal luogotenente del duca Enrico, assente perché colpito dalla malattia che lo avrebbe poi condotto a morte. La quarta legione era formata da Franchi guidati dal duca Corrado. Il re in persona, protetto da migliaia di guerrieri scelti, circondato dal fiore della gioventù, era a capo della legione più importante, che aveva il nome di legione regia: davanti a lui procedeva il vessillo con l’angelo, insegna di vittoria. La sesta e la settima legione erano costituite da guerrieri Svevi, comandati da Burcardo, che aveva sposato la figlia di un fratello di Ottone. Nell’ottava legione vi erano i Boemi: mille guerrieri scelti, esperti nelle armi più che protetti dalla fortuna. Poiché era l’ultima, e veniva ritenuta la meno esposta a pericoli, le erano stati affidati i bagagli e le salmerie.

Ma le cose andarono diversamente da come si era pensato. Gli Ungari, senza esitare, traversarono la Lech, aggirarono la nostra armata, tempestarono di frecce l’ultima legione e la aggredirono levando alti clamori: presero prigionieri alcuni soldati, altri ne uccisero e gli altri li misero in fuga, impadronendosi di tutti i carichi. Allo stesso modo attaccarono la sesta e la settima legione, abbattendo molti guerrieri e mettendo in fuga gli altri. Come il re si rese conto che era stata attaccata battaglia dal fondo e che la retroguardia si trovava in gravissime difficoltà, mandò in aiuto la quarta legione, che liberò i prigionieri, recuperò le salmerie e mise in fuga le schiere di razziatori. Compiute queste imprese, il duca Corrado, che era a capo della legione, tornò dal re con le insegne vittoriose: con soldati non addestrati e quasi inesperti aveva riportato un trionfo mirabile, là dove dei veterani, solitamente vittoriosi, si erano trovati in difficoltà.

Come il re vide che doveva prepararsi a reggere l’urto di una battaglia che gli veniva portata alle spalle, si rivolse ai suoi con queste parole di incoraggiamento: “Miei guerrieri, vedete anche voi come vi sia bisogno di tutto il nostro coraggio in questo momento decisivo, quando il nemico non è più lontano, ma ci è proprio accanto. Finora, grazie alle vostre instancabili braccia ed alle vostre armi invitte, dovunque, in tutti i territori fuori del mio regno, io sempre ho conseguito la vittoria. E proprio ora dovrei volgere le spalle, ora che sono nella mia terra e nel mio regno? Lo so, i nemici ci superano in numero, ma non in valore, e non in forza. Sappiamo che la maggior parte di loro è priva di armi e, ciò che più ci conforta, sono privi dell’aiuto di Dio. Come difesa hanno solo la propria audacia, mentre noi abbiamo la speranza e la protezione divina. Noi, che siamo signori di quasi tutta l’Europa, non possiamo cedere al nemico. Se è destino, è meglio morire gloriosamente in battaglia piuttosto che vivere in servitù o venire strangolati come bestie nocive. Miei soldati, se pensassi che le parole potessero infondere coraggio ed audacia ai vostri animi vi parlerei più a lungo. Ma più che le voci, facciamo parlare le armi”. E con queste parole afferrò la spada e la Sacra Lancia, e per primo spronò il cavallo tra i nemici, adempiendo alla sua funzione di valoroso soldato e di eccellente comandante. I più valenti degli Ungari dapprima opposero resistenza, ma come videro che i compagni fuggivano si persero d’animo, rimasero isolati in mezzo ai nostri e vennero sterminati. Degli altri Ungari alcuni, a spron battuto, cercarono rifugio nei villaggi vicini ma furono accerchiati e perirono tra le fiamme delle costruzioni dove avevano cercato riparo. Altri tentarono di traversare il fiume ma non riuscendo a scalare la riva opposta, che era scoscesa, morirono inghiottiti dalle acque. Quello stesso giorno il loro accampamento fu invaso e vennero liberati tutti i prigionieri. Nei due giorni successivi gli abitanti delle città limitrofe massacrarono gli Ungari superstiti, così che nessuno, o quasi, riuscì a salvarsi.

Carico di gloria per quell’illustre trionfo il re ricevette dal suo esercito il titolo di padre della patria e di imperatore; stabilì che in tutte le chiese si rendessero onori e lodi a Dio affidandone l’incarico alla sua santa madre; e col più grande tripudio tornò in Sassonia dove il popolo lo accolse col massimo entusiasmo: nessuno dei suoi sovrani, da duecento anni a quella parte, lo aveva infatti allietato con una simile vittoria.

 

Ed infine una ricostruzione della lunga lotta sostenuta dalle popolazioni cristiane per scacciare i Saraceni da Frassineto, tratta da internet (www.cronologia.leonardo.it), dal saggio La flotta di Allah all’arrembaggio delle coste italiane, di Elena Bellomo.

Riferisce un cronista arabo che saraceni partiti dalla Spagna sbarcarono sull’indifesa costa provenzale (in corrispondenza dell’attuale Golfo di Saint-Tropez) ed occuparono un lembo di territorio, lontano dal mare circa due giorni di marcia. Il presidio di Frassineto era dotato di strategiche difese naturali, essendo costruito su un rilievo e completamente circondato da una foresta tanto fitta da essere impenetrabile. Gli occupanti avevano inoltre modo di esercitare una stretta sorveglianza sull’ingresso alla fortezza, costituito da un solo, angusto passaggio. La fortezza di Frassineto viene generalmente identificata con la località denominata La Garde-Freinet, situata in Provenza. E’ comunque ovvio ritenere che le fonti antiche con il termine Fraxenetum non si limitassero a designare un semplice castello, ma una discreta estensione di territorio all’interno del comitato del Frejus, situata tra il mare ed il Mons Maurus e posta sotto il diretto controllo saraceno. Subito dopo il loro stanziamento, gli occupanti di Frassineto iniziarono sistematiche incursioni nel territorio tra il Rodano e le Alpi e sulle coste provenzali e liguri fino ad Albenga. Giunsero poi ai passi alpini, li traversarono, devastando il territorio italico e si spinsero fino alla Svizzera, dove assalirono il monastero di S. Gallo, il vescovado di Coira e le terre della valle del Reno. La Riviera di Ponente, ma anche l’imminente Appennino e l’Oltregiogo padano, vennero saccheggiati a più riprese. Ne conseguì la quasi totale rovina dei territori di Aqui, Alba e dell’alto Tortonese, dove una leggenda voleva che i saraceni si fossero insediati presso i resti dell’antica città romana di Libarna. L’azione predatoria degli occupanti di Frassineto tese soprattutto ad intensificarsi in corrispondenza dei più importanti valichi, frequentati soprattutto da pellegrini. In alcuni casi vennero impiantati dagli arabi veri e propri presidi ed uno scrittore contemporaneo, Flodoardo, ci informa che sui passi alpini i mori arrivarono a sostituire gli atti di brigantaggio con l’esazione di un regolare tributo.

Frassineto era dunque diventato sinonimo di morte e devastazione, eppure la virulenza degli attacchi portati dai suoi occupanti molto dovevano all’incapacità di reazione dei cristiani, se non alla loro colpevole complicità. Ulteriore indice dell’insicurezza delle coste è poi rappresentato dalle sempre più frequenti traslazioni di “Corpi Santi” dal litorale verso l’interno. Il popolo cristiano teme infatti per le proprie preziose reliquie e decide dunque di trasportarle lontano dalle coste, in luoghi più sicuri.

Possiamo ricordare in merito quella delle reliquie di S. Caprasio,  portate da Lerino all’Aulla in Lunigiana per espresso desiderio dei Marchesi, e quelle di S. Calogero di Albenga, che furono trasferite al Monte sopra Civate. A causa delle scorrere arabe i traffici marittimi si erano dunque fatti dunque più rari ed insicuri. Un cronista arabo, infatti, racconta che il raggio dei commerci era drasticamente diminuito ed i mercantili incrociavano solo nei pressi della costa, ben lontano dalle zone battute dai saraceni.

L’azione sul mare da parte delle navi di Frassineto doveva però scontrarsi con l’unica marina che allora avesse la disciplina, la scienza tattica e la disponibilità di mezzi sufficienti a contrastare gli arabi: la flotta bizantina. Una sua divisione, infatti, agli ordini dell’esarca dell’Africa, incrociava abitualmente nelle acque della Sardegna e della Corsica ed era stata di fondamentale importanza nella difesa della Liguria.
Lo stesso Flodoardo afferma che i greci inseguirono per mare i saraceni usque ad Fraxinidum saltum e li batterono, garantendo pace alle regioni del versante alpino italico. Ben lungi dal dichiararsi battuti i musulmani si preparavano però ad attuare una nuova temeraria spedizione che avrebbe sortito una delle loro maggiori vittorie: il sacco di Genova. Fino ad allora le incursioni saracene si erano sempre arrestate presso Savona, ma la traslazione delle reliquie di S. Romolo da S. Siro alla basilica cittadina di S. Lorenzo dimostra che ormai la popolazione si sentiva sicura solo all’interno delle mura della città.

Se i Genovesi avessero comunque paventato un vero pericolo avrebbero provveduto a collocare le reliquie del santo in un luogo più protetto. L’intervento bizantino del 931, quindi, aveva sventato la prima spedizione probabilmente indirizzata verso il capoluogo ligure, ma non impedì agli arabi di prendersi la rivincita tre anni dopo. Nel 934, infatti, il califfo fatimita Muhammad, appena incoronato, organizzò una spedizione contro i territori liguri. L’incursione venne condotta dall’ammiraglio Ya ‘qub’ ‘ibn ‘Ishaq, che al comando di trenta navi saccheggiò le coste liguri, facendo ritorno in patria con un ricco bottino. L’ampio progetto di affermazione sulle acque del Mediterraneo, perseguito dalla potenza fatimita, non poteva però limitarsi a sporadiche razzie e quindi l’anno seguente venne allestita una seconda spedizione, che, sotto il medesimo comandante, assediò ed espugnò la città di Genova, grazie all’apertura di una breccia nelle mura. Ingenti furono le perdite dei difensori, senza contare le abitazioni e le chiese spogliate e distrutte e le donne, circa un migliaio, fatte prigioniere e condotte in Africa. Durante il ritorno, le imbarcazioni saracene si imbatterono in un contingente della flotta bizantina, probabilmente salpato dalla Sardegna con l’intenzione di intercettarle. Molte delle navi sardo-bizantine furono incendiate ed il confronto si concluse con la loro sconfitta.

L’eco di questi avvenimenti dovette perpetuarsi a lungo, dato che, più di quattrocento anni dopo, lo storico Ibn-Haldun ricordava il sacco di Genova come il massimo trionfo della marina araba e anche la stessa storiografia genovese si sarebbe fatta vanto delle successive vittorie riportate contro gli infedeli, quasi a cancellare il segno dell’affronto subito. Solo nel 941, Il re d’Italia Ugo intraprese una serie di operazioni militari, finalizzate alla definitiva eliminazione della minaccia araba che incombeva su tutto il limes italico, ed era ovviamente fondamentale per la riuscita di tale progetto la distruzione della base operativa di Frassineto.

Per attaccarla su due fronti, quello marino e quello terrestre, Ugo richiese l’aiuto bizantino e con tutta probabilità l’imperatore Romano Lecapeno gli concesse l’ausilio della classis della Sardegna. Nell’estate del 941 prese avvio l’attacco congiunto. Le navi greche riportarono una schiacciante vittoria nelle acque del Golfo di Saint-Tropez, mentre Ugo e le sue truppe occupavano Frassineto. Quando il successo sembrava ormai a portata di mano, il re, temendo che dai passi delle Alpi Occidentali e Centrali Berengario, che gli contendeva il trono, potesse entrare in Italia, venne a patti con i saraceni, legittimandone i presidi sui valichi alpini. Gli arabi, quindi, divennero vere e proprie guardie confinarie del regno e la loro influenza politica nelle vicende d’Italia si rafforzò notevolmente.

La cattura da parte degli occupanti di Frassineto di S. Maiolo, abate di Cluny, che tornava in Francia attraverso il Vallese, fu il motivo scatenante della spedizione risolutiva. La consapevolezza che essi avevano infatti osato catturare uno degli uomini più rappresentativi della chiesa dell’epoca sembra quasi aver inaspettatamente risvegliato l’orgoglio cristiano. Da questo momento comincia la lenta e sanguinosa riscossa dell’Occidente, volta a riguadagnare il predominio sul mare.

Inizialmente nella lotta contro i saraceni appaiono impegnati i maggiori rappresentanti della feudalità provenzale ed italica. Tra il 984 ed il 985, infatti, Arduino, conte di Torino, liberava i passi del Moncenisio e del Monginevro e forse aiutava Roboaldo di Arles a distruggere Frassineto, mentre il fratello di questi, Guglielmo, capo della riscossa cristiana, eliminava le ultime sbandate schiere saracene sul versante alpino occidentale. Malgrado la distruzione di Frassineto, le incursioni saracene sulle coste liguri e toscane non si arrestarono. Esse provenivano soprattutto dall’Africa e dalla Spagna e costituivano l’ultimo e vano tentativo di installare un presidio permanente nel Tirreno.

In quest’ultima lotta avrebbero progressivamente acquisito importanza le città marittime di Genova e Pisa, impegnate nel guadagnarsi un nuovo spazio vitale, che per esse naturalmente coincideva almeno con parte del Mediterraneo occidentale.

 

 

Truppe mercenarie

Quando gli Stati si fanno ricchi, e, soprattutto, quando se ne fa ricca la popolazione, accade spesso che la difesa venga affidata a soldati di mestiere ovvero a truppe mercenarie. Molte volte questi soldati sono tratti dalla stessa popolazione dello Stato, altre volte possono essere di origine straniera. In entrambe i casi, oltre ad una diminuzione della capacità bellica del proprio esercito, lo Stato ottiene di mettere in mortale pericolo la libertà propria e dei propri cittadini.

 

Il vero coraggio, quello del cittadino che difende la propria casa, la propria libertà e quella dei propri cari, è quello di cui parla Aristotele, nell’Etica Nicomachea:

In conclusione, si chiamerà propriamente coraggioso colui che sta senza paura di fronte ad una morte bella, e di fronte a tutte le circostanze che costituiscono rischio immediato che conduce ad una tale morte: di questo tipo sono soprattutto le situazioni di guerra…

…la morte e le ferite saranno dolorose per l’uomo coraggioso, che le subirà contro voglia, ma le affronterà perché è bello affrontarle, ovvero perché è brutto non farlo.

E quanto più completa sarà la virtù che possiede e quanto più sarà felice, tanto più soffrirà di fronte alla morte: è per un uomo simile, soprattutto, che la vita è degna di essere vissuta, ed è lui che sarà privato dalla morte dei beni più grandi, e lo sa; e ciò è doloroso. Ma non è affatto meno coraggioso, anzi forse lo è anche di più, perché sceglie, in cambio di quei beni, ciò che è ancora più bello…

Dunque è in vista del bello morale che il coraggioso affronta le situazioni temibili e compie le azioni che derivano dal coraggio.

 

 

Se un esercito di mestiere può normalmente vantare una professionalità maggiore di un esercito di leva, la motivazione che muove le truppe, e cioè la sete di denaro o il desiderio di avventura, le induce ad essere coraggiose ed efficaci fino a che possano agire in condizioni di relativa sicurezza e con buona certezza di vittoria. Non appena un esercito mercenario si trovi dinnanzi alla prospettiva della sconfitta, non trova in sé motivazioni sufficienti a continuare a combattere per una causa già data per persa.

Questa insufficiente motivazione al combattimento non è comunque un fatto assolutamente scontato: se l’esercito di mestiere è educato secondo particolari valori morali, allora esso unisce i due pregi, quello della professionalità militare e quello del coraggio spinto fino all’estremo sacrificio: i samurai giapponesi, così come certi corpi di elite degli eserciti contemporanei presentano queste caratteristiche.

Ma mai questo accade quando ci si affida ad eserciti stranieri.

 

Vi è poi un secondo e massimo pericolo, che si presenta in entrambe i casi: quando l‘esercito di mestiere si avvede che nessuna altra forza lo può minacciare, esso è spinto ad impadronirsi del potere, senza che alcuno vi si possa interporre.

Questo può avvenire per proprio ed esclusivo interesse, come, in altri casi, per la difesa di particolari valori od ideologie, messi in forse dalla maggioranza del momento.

Esempi di presa del potere da parte dell’esercito sono numerosi anche ai nostri giorni, in paesi dove la democrazia non ha tradizioni particolarmente consolidate tra il popolo.

 

Di entrambi questi pericoli parla il Petrarca, nella poesia Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno, dove condanna proprio l’abitudine invalsa nei comuni italiani di arruolare truppe mercenarie di origine tedesca:

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché ’n cor venale amor cercate o fede.
Qual piú gente possede,
colui è piú da’ suoi nemici avolto…

Né v’accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?

 

Chi più si circonda di mercenari, più è circondato da nemici; inoltre, costoro, quando la situazione diviene difficile, si arrendono ai loro compatrioti alzando un dito (ch’alzando un dito…)

Già la caduta dell’impero romano può in gran parte attribuirsi al fatto di essersi per più secoli affidato a truppe mercenarie, che costituirono l’elemento di maggior disordine ed instabilità dell’impero stesso.

 

 

Ancora un poco di storia

Ricordiamo alcuni degli innumerevoli casi nei quali truppe prezzolate si sono rivelate più pericolose del nemico per i loro arruolatori.

 

  • I Mamertini di Reggio e Messina

Abbiamo già raccontato della rivolta dei mercenari cartaginesi, alla fine della prima guerra punica, nel capitolo 1.4.1. Ma all’inizio della guerra si posiziona la conquista delle città di Reggio e di Messina da parte di bande di mercenari campani, che davano a se stessi il nome di Mamertini, cioè figli di Marte. Costoro, arruolati da Agatocle di Siracusa, al termine del servizio, per di più poco onorevole ed apprezzato, invece di tornarsene a casa, conquistano le città, massacrano la popolazione maschile e si fanno padroni di ogni cosa. Gli sforzi dei Greci di Sicilia per disfarsi di costoro costituì il casus belli dell’accendersi dello scontro tra Romani e Cartaginesi.

Il grande storico tedesco di Roma, Theodor Mommsen, racconta così il fatto:

In Messana [Messina, ndr], che era la seconda città siciliana, posta sulla costa orientale, si era annidata un’orda di avventurieri che spadroneggiava, indipendentemente dai Siracusani e dai Cartaginesi. Erano una specie di lanzichenecchi provenienti dalla Campania. La corruzione insinuatasi nei Sabelli venuti a fondare colonie a Capua e nel suo territorio aveva ridotto, nel quarto e nel quinto secolo, la Campania… a mercato di genti al soldo e di accaparratori di mercenari per i principi e le città che abbisognassero di soldatesche.

La semi-cultura che i Greci campani avevano diffuso, la voluttà barbara per cui erano famose Capua e le città attorno ad essa, l’impotenza politica a cui quegli Stati erano condannati dall’egemonia romana, la quale però non aveva sottoposto a rigida disciplina quella gente e lasciava loro l’indipendenza personale, tutto pareva sospingere la gioventù campana ad arruolarsi sotto le bandiere dei capitani di ventura; né occorre notare come questo ignominioso mercato di se stessi portasse anche allora, come sempre, al disamore della patria, alle abitudini di arroganza e di violenza, e più che tutto al culto della forza e all’indifferenza per il tradimento.

Questi Campani non riuscivano a persuadersi perché mai non dovessero mettere le mani, purché avessero la forza di tenerla, sulla città che veniva data loro in custodia, dal momento che con lo stesso diritto i Sanniti si erano impadroniti di Capua, ed i Lucani di non poche altre città greche. E la Sicilia, più di ogni altro, pareva indicata per questi colpi di mano; così appunto si erano stabiliti in Entella e alle falde dell’Etna i Campani venuti in Sicilia mentre ferveva la guerra del Peloponneso.

Verso l’anno 284 a.C. dunque, in Messana, capitale del partito greco che osteggiava i duecentottantaquattro signori di Siracusa, si erano stabilite le bande di Campani che prima avevano servito sotto Agatocle e, morto questo, si erano date a pirateggiare per proprio conto.

Trucidati o cacciati i cittadini, i soldati si divisero tra loro le donne, i fanciulli e le case, e non passò molto che i nuovi padroni della città, gli uomini di Marte, ossia i Mamertini, come si chiamavano questi ladroni, divennero la terza potenza dell’isola…

Nel 274, Gerone di Siracusa, si liberò dell’esercito straniero, composto di mercenari, rigenerò la milizia cittadina, e fece ogni sforzo per far risorgere la potenza ellenica…

I primi e più vicini nemici dei Siracusani erano i Mamertini, progenie degli odiosi mercenari già estirpati, assassini dei loro ospiti greci, usurpatori di parte del territorio siracusano, oppressori e concussori di molte altre piccole città greche…

Nel frattempo i Romani, alleati ai Siracusani, sterminavano i mercenari campani che avevano occupato Reggio, ma poi, intervenuti nella contesa i Cartaginesi, per fermare costoro, si alleano con i Mamertini e iniziano la guerra contro Siracusani e Cartaginesi.

E’ interessante conoscere la curiosa tesi dello storico francese Jules Michelet, nella sua Storia di Roma, secondo cui la divisione dei Romani in Patrizi e Plebei fosse dovuta ad un analogo episodio avvenuto originariamente a Roma, nel quale milizie di ventura avevano occupato la città, sottomesso la popolazione originaria e stabilito il proprio dominio, costituendo la classe patrizia.

E’ noto come i Mamertini, Sabini o Sabelli, si impadronirono di Capua, e come i Mamertini Campani, molto tempo dopo, si impossessarono di Messina e Reggio. Entrarono in quelle città come alleati ed ausiliari, uccisero la maggior parte degli uomini e si unirono alle spose di questi. Ad un avvenimento del genere si deve forse attribuire la fondazione di Roma. I villaggi oschi o pelasgici sui sette colli saranno stati occupati pacificamente o con la forza da un ver sacrum di pastori sabini. Quirinus e Quirites non altro significano che Mamers e Mamertini; infatti Mamers presso i Sabini era lo stesso che quir, asta o picca, essendo il Marte sabino adorato sotto forma di una picca.

Avanzatisi audacemente sulle rive del Tevere fra i grandi popoli degli Oschi e degli Etruschi, questi Mamertini avranno assoggettato ogni tanto a taglie o contribuzioni quei popoli dediti all’agricoltura.

Crescendo di numero mercè l’asilo aperto ai fuggiaschi ed ai vagabondi, quegli abitanti avranno potuto sussistere a lungo senza donne. In Romolo venne così personificato un lungo ciclo. Il ratto delle Sabine, dato come unico dalla poesia, dovette rinnovarsi in quel ciclo, ad ogni stagione campale. Donne, schiavi, messi e bestiame costituivano le prede.

  • I Mamelucchi in Egitto

Dall’anno 1000 in poi, i regnanti Abbasidi che, da Bagdad, reggevano le sorti della comunità islamica del medio oriente, si servirono per loro difesa di una Guardia Turca, un corpo costituito da elementi delle tribù nomadi delle steppe transcaucasiche. Questo fatto costituì la fine dell’indipendenza araba, con la successiva presa del potere da parte dei turchi, che lo mantennero fino al secolo XX. Una delle tribù di origine turca che si impadronì del potere in quegli anni, fu quella dei Mamelucchi, che regnò in Egitto in modo totalmente autonomo dal 1259, quando si impadronì del potere al termine o a danno della dinastia degli Ayyubidi, di origine curda, anch’essa di origine militare (il cui massimo esponente fu il Saladino), fino al 1517, quando l’Egitto fu conquistato dall’impero Ottomano (i turchi conquistatori di Bisanzio).

Essi si distinsero in due rami: quello più antico, dei Mamelucchi bahri o fluviali (1259-1382), e quello più recente, dei Mamelucchi burgi o della torre, detti anche Mamelucchi circassi (1382-1517). Il loro dominio si estese dalla Libia all’Eritrea, fino alla Siria ed all’Eufrate.

Sotto di essi si ebbe uno sviluppo artistico molto singolare, ispirato dalla cultura selgiuchide, distinto in due momenti, uno più classico, l’altro barocco.

Successivamente essi rimasero in Egitto come una sorta di nobiltà feudale, rispettati dal potere ufficiale degli Ottomani, al cui servizio militavano, e sparirono solamente dopo la cosiddetta battaglia delle piramidi, combattuta contro Napoleone il 21 luglio 1798. Resoconti dell’epoca ricordano come ogni Mamelucco fosse un vero e proprio tesoro ambulante, carico di armi ed ornamenti coperti d’oro e di pietre preziose. Questo fatto li rendeva prede ambite della soldataglia, e ne affrettò la fine.

L’aspetto più curioso del loro potere, durato ben 650 anni, fu che essi riuscirono a mantenere la propria identità razziale assolutamente distinta da quella egiziana, e quindi la propria assoluta individualità, attraverso la proibizione di nozze e di figli legittimi cui lasciare in eredità beni e potere: ogni Mamelucco lasciava proprio erede uno schiavo proveniente dal Caucaso, la loro terra d’origine, appositamente fatto catturare da scorridori a questo incaricati, perpetuando in tal modo l’origine iniziale della loro schiatta.

 

  •  Le milizie di ventura nel Rinascimento in Italia

Così lo storico Carlo Denina, nella sua opera Le rivoluzioni d’Italia, parla del fenomeno:

Ma il maggior danno che patisse l’Italia dalla metà del secolo in poi, procedette dal nuovo genere di milizia che si introdusse circa il 1340, e in breve, come tutte le cattive usanze, s’accrebbe, si propagò e divenne comune a tutti i principi e le repubbliche italiane. Sino a quel tempo se non tutte, certamente il maggior nerbo delle milizie erano proprie e naturali di ciascuno Stato o libero o monarchico che si fosse. Era bensì costume antico che nelle più ardue e pericolose guerre si soldassero cavalieri e fanti tedeschi; perché scendendo costoro a cercar fortuna in Italia, spezialmente in occasione che i re di Germania venivano a pigliar corona, rare erano le volte che se ne tornassero tutti in Alemagna, finite le imprese del re. Molti di loro di acconciavano al servizio delle repubbliche e de’ principi italiani, e molti ancora ne venivano per quello a bella posta di oltremonti… Avevano le dette masnade i lor conestabili nazionali, ciascun de’ quali poteva comandare a poche decine di barbute, cioè di cavalieri a due cavalli…; ma il comando generale restava appresso un capitano cittadino, o suddito, o in qualunque modo italiano, che non faceva causa comune coi tedeschi od altri stranieri, a cui comandava. Passato il bisogno, coteste masnade per l’ordinario si licenziavano… Con tutto questo non lasciavano di dar disturbo dovunque si volgessero.

Troviamo che nell’anno 1322 alcune di queste masnade, partitesi dai fiorentini, al cui soldo militavano, s’andarono ad unire con Deo Tolomei fuoruscito di Siena,…, e fattisi chiamar la Compagnia, andavano infestando il contado di Siena, rubando e manomettendo ogni cosa… Nel 1339 presero altra forma, e fu allora quando Lodrisio Visconti si fece capo delle genti d’armi tedesche che Mastin della Scala licenziò dal suo servizio, e che Lodrisio condusse predando e saccheggiando da Verona fin presso a Milano. La virtù delle genti d’Azzo, signore dello Stato, e spezialmente il braccio aggiuntovi a tempo d’alcune truppe di savoiardi ed altri suoi confederati, disfece quei masnadieri. Ma l’esempio di quell’unione di genti a ventura e di ribaldi fu l’epoca fatale in cui altre simili compagnie si formarono di poi con tanta rovina d’Italia…

Quando gli Stati ebbero una volta cominciato a servirsi nelle guerre di queste compagnie, il male divenne pressoché necessario; e ancorché non tardassero a vedere le cattive conseguenze di cotal genere di milizie, dovettero nulladimeno non pur patire questo male, ma accrescerlo. Perocché qualunque de’ principi si trovasse da una potenza contraria assalito con queste armi, non essendo a tempo, ancorché volesse, di armare i suoi sudditi, o soldare eziandio, secondo l’antico costume, picciole truppe o masnade divise, per dar loro un comandante a sua scelta, gli conveniva ricorrere a queste grandi compagnie già composte e già addestrate ed avvezze ad obbedire al suo proprio capitano generale.

Così il marchese Giovanni di Monferrato… andò egli stesso in Provenza per condur di là al suo servizio una nuova compagnia d’inglesi… Chiamavasi questa la Compagnia bianca; perocché tutte pigliavano un soprannome particolare, come la Compagnia di San Giorgio e la Compagnia della Stella, che furono le prime a farsi nominare in Italia…

Essi si godevano il fiore dei tributi; perocché per guadagnarseli e contentarli, conveniva a quel potentato che li conduceva a suo servizio, pagar loro ingordi stipendi, e niente meno costava poi il licenziarli e mandarli via, passato il bisogno. Il peggio era, che d’ordinario se ne aveva cattivo servizio, perché servivano sempre con doppia fede, ed erano temuti egualmente e più da quel che li pagava, che da quelli contro cui erano mandati… Né anche bastava che a loro si destinasse tutto il danaro più spiccio che correva in Italia; ma cavalli, giumenti, robe d’ogni sorta, e spezialmente il fiore delle donne e della gioventù doveva riservarsi per questi capitani di ventura, e lor masnadieri.

Talché pochi Bascià fra gli Ottomani esercitavano forse un dispotismo più fiero e più acerbo ed universale di quel che costoro facevano per le contrade d’Italia…

Ma il maggior male per appunto che recò seco l’introduzione di tal genere di milizia straniera ed a ventura, fu l’avvilimento della milizia propria e cittadina; perciocché allora i principi ed i rettori delle repubbliche, quale per cupidità di occupar più facilmente l’altrui, quale per sospetto e per tema di essere assaltati da un altro trovarono più spedita maniera d’armarsi con la condotta di quella soldatesca, che far leva di milizie nel proprio Stato…

Se qualche ombra di vantaggio ne venne all’uso di quelle milizie, fu per avventura che i fatti d’arme divenissero col tempo molto meno distruttivi che non eran di prima. Ma questo vantaggio allorché si cominciò a provare, costò tuttavia assai caro all’Italia; perché trovandosi quasi disarmata per la decadenza delle milizie proprie, restò esposta a tutte le invasioni delle potenze straniere nell’entrare del secolo decimo sesto. Frattanto se versandosi nelle guerre il sangue straniero e venale, si risparmiò qualche parte del sangue italiano almeno ne’ fatti d’armi, grandissimo fu ad ogni modo l’eccidio e l’esterminio che ci recarono quelle barbare ed ingorde compagnie, dalla cui cupidigia e crudeltà niuna condizion di persone e niuna parte di questa provincia andò esente: e l’oro che i Tedeschi, Ungheri, Inglesi e Borgognoni, ond’esse erano composte, fecero dalle nostre contrade passare oltremonti, fu inestimabile.

 

  •  Pandolfo Malatesta signore di Brescia

Ma non furono questi i soli danni provocati dal militare mercenario. Oltre ai costi in denaro, esso costò direttamente in termini di libertà alle città italiane: infatti non poche di queste caddero nelle mani dei comandanti militari di varia origine, che se ne fecero Signori. Il Denina polemizza più con gli stranieri che con gli Italiani, secondo una retorica ottocentesca, ma questo impadronirsi delle signorie cittadine da parte di uomini d’arme e la conseguente fine della libertà civile fu al primo posto tra le cause della decadenza italiana, che aprì la porta al dominio dello straniero, talora non sentito peggiore di quello dei tirannelli nostrani.

Riportiamo a seguito il racconto della conquista della città di Brescia da parte di Pandolfo Malatesta, che se ne fece signore nel 1404. Il brano è tratto dalla monumentale Storia di Brescia, a cura di Giovanni Treccani degli Alfieri,  Vol. I:

Nato nel 1377 da Galeotto signore di Fano, Pandolfo apparteneva alla celebre casata principesca guelfa dei Malatesta da Verucchio, che tenne per circa due secoli il dominio sulla marca d’Ancona e su parte della Romagna lasciando orme gloriose a motivo della sua grande passione per la conquista, il fasto, l’erudizione e l’arte.

Animato da sogni ambiziosi, divenuto ancor giovanissimo signore di Fano, aveva formato una compagnia di ventura, alla cui testa aveva militato sotto le insegne di Gian Galeazzo [Visconti]. Alla morte di lui anche Pandolfo come gli altri cercava di assidersi nel convito della spartizione del ducato. Compagno nell’impresa bresciana di Pandolfo era in questo momento Facino Cane. Chiamati entrambi dai ghibellini di Brescia, le cui sorti volgevano al peggio, passato l’Adda (29 gennaio 1404) ed entrambi in territorio bresciano, si dirigevano verso la città, sottomettendo all’obbedienza ducale i vacillanti castelli degli insorti. Giunti alle mura di Brescia, la occuparono.

Ma tre giorni prima dell’impresa Pandolfo, per mezzo del suo segretario Ludovico Cantello aveva scritto a Giovanni Martinengo, capo dei guelfi bresciani, informandolo di avere un credito di 200.000 ducati verso la reggenza ducale e chiedendo amichevolmente che gli dessero la città e lo accogliessero fidenti: egli sarebbe stato un buon principe.

Il Cantello si adoperò perché i guelfi lo compiacessero. Ed affinché il Malatesta non sembrasse traditore si convenne che si mettessero fuori tre batterie per simulare un assalto e che i guelfi cedessero come vinti e che infine il dramma terminasse come ultima scena con il trionfale ingresso di Pandolfo. Tutto questo per ingannare non solo i ghibellini ignari del tradimento, ma soprattutto Facino Cane, più aperto sostenitore dell’antico dominio, e ben lontano dal sospettare quelle mene. Convenuti pertanto i guelfi a porta Brescia, confermati i patti di quella pace che Facino Cane non dubitava fosse conclusa a nome di Caterina Visconti, Facino occupava la cittadella e Pandolfo la città.

Poi proseguirono entrambi a soccorrere Verona, circondata dalle armi dei carraresi [partigiani di Francesco Novello da Carrara, ndr]: ma era troppo tardi, quelli l’avevano già presa. Facino allora avanzò verso Vicenza e Padova, minacciate dal Carrara, mentre Pandolfo tornava a Brescia…

Al governo della città erano rimasti Giovanni dell’Agnello, capitano della Cittadella, e i condottieri del presidio; quando alle porte della città si presentò un araldo che, introdotto dal capitano presentò un’intimazione dello stesso Pandolfo, con la quale esigeva il possesso della città, ch’egli asseriva a lui affidata dalla reggenza. Mentre il capitano meravigliato spediva messi chiedendo alla reggenza risposta sollecita e risoluta, Pandolfo circondato da cavalli e fanti si avvicinava alle porte con due decreti di Caterina, nei quali si diceva che si doveva ricevere all’istante il magnifico Pandolfo coi militi del suo seguito nella cittadella…

Così Brescia passava nelle mani del capitano di ventura; tranne la rocca di porta Pile ed il castello che tenevano fede a Caterina, e così molti luoghi del contado dove si erano rifugiati i Ghibellini avversi al Malatesta.

 

Pandolfo acquisterà nel 1408 anche la città di Bergamo dai Soardi e dai Colleoni, per 30.000 scudi. La sua signoria andrà dapprima rafforzandosi, ma poi cadrà sotto i colpi dei milanesi, guidati dal Carmagnola, il 15 marzo 1421.

 

  •  Considerazioni conclusive

Al di là delle considerazioni, abbastanza scontate, sull’indispensabilità dell’esistenza di uno strumento di difesa per uno Stato, vorrei sottolineare l’importanza di un esercito fondato sulla leva di popolo e sulle tradizioni delle sue genti, piuttosto che su apparati di mestiere, formati da volontari molte volte attratti più dalla prospettiva del posto fisso e sicuro che da amor patrio o virtù guerriere.

Abbiamo visto, in questi anni, la distruzione della tradizione militare alpina, che forniva all’Italia un esercito di altissima qualità, tratto dalle sue popolazioni montanare e sorretto da un grande concorso di tradizione e fierezza locale, con la fine della leva territoriale e la formazione dei reparti alpini con truppe di ogni regione, in particolare meridionali.

Alla lunga si è visto che soluzioni di questo tipo, di certo più economiche, non rendono gli Stati e le comunità più sicuri. Non basta l’affermazione che i tempi sono cambiati e che la saldezza democratica del Paese rende gli eserciti di mestiere molto meno pericolosi. Nessuno degli Stati o dei principi rovesciati da milizie mercenarie pensava, al momento del loro arruolamento, che quel che poi accadde sarebbe stato possibile. Ed i tempi, nella storia, sono molto più lenti a cambiare della percezione che ne hanno coloro che li stanno vivendo.

Personalmente non sono quindi favorevole alla fine dell’arruolamento di leva, che vedo utile, tra l’altro, non solo alla difesa della libertà civile, ma anche come strumento di grande educazione della gioventù, sottratta per un tempo congruo alla mollezza dei costumi contemporanei ed abituata alla vita di comunità cameratesca, esperienza mai più ripetibile altrimenti. Non è un caso che il periodo militare è quello che dà origine alle tradizioni più sentite e partecipate e che tutti ricordano con nostalgia.

Vorrei far notare che il fatto che molte volte il servizio di leva si rivelava una autentica perdita di tempo, senza alcun addestramento od esperienza militare, era più dovuto alle strutture di mestiere dell’esercito, ufficiali e sottufficiali (leggasi marescialli) abituati e vogliosi più di una vita da impiegati che da soldati, che dall’attitudine dei giovani di leva.

 

Invece dell’abolizione della leva, avrei visto con favore l’obbligatorietà del servizio civile per tutti (maschi e femmine), per almeno due anni, senza esenzioni per nessuno, se non per invalidità gravi e reali, nell’ambito del quale, volontariamente, fosse possibile svolgere uno o due anni di servizio militare, con addestramento reale.

Il servizio civile dovrebbe svolgersi nell’ambito di diversi ruoli od attività, scelte liberamente, tra le quali l’assistenza agli anziani od ai disabili, la sorveglianza ambientale e civile (vigili del fuoco, protezione civile, sorveglianza a biblioteche e musei ed al patrimonio artistico) ed altre attività di pubblica utilità tra le quali il ripristino dei sentieri montani, lasciati sempre più all’abbandono ed alla lenta distruzione portata dalle ingiurie del tempo. Un grandissimo patrimonio di sentieri e strade di montagna, realizzate nel corso della prima guerra mondiale, sta a poco a poco scomparendo, per l’insufficienza del lavoro volontario degli appassionati. La possibilità di disporre di un servizio dedicato ne permetterebbe il ripristino e la regolare manutenzione.

La vivibilità delle nostre montagne e dei nostri parchi naturali, la possibilità per la gioventù di esercitarsi in sport al contatto con la natura e lo stesso nostro turismo ne sarebbero grandemente beneficiati.

Un servizio civile organizzato paramilitarmente, cioè in strutture separate e con disciplina militare (non, cioè, da casa propria e senza controllo), costituirebbe un momento di grande esperienza ed educazione per i giovani e di altrettanto grande utilità per la comunità.

Coloro che lo desidererebbero, potrebbero, in questo ambito, svolgere il servizio militare, rovesciando in tal modo il rapporto precedente, nel quale il servizio civile era una eccezionale alternativa a quello militare.

Non sono poi da trascurare le esperienze svizzere od americane (guardia nazionale), nelle quali si resta nell’esercito od in strutture di difesa territoriali per tutta la vita, pur nell’attività civile, con brevi periodo annuali di ferma ed addestramento, fornendo alla società una struttura di emergenza sempre pronta ed efficace. I servizi di vigili del fuoco del Trentino e del Tirolo ne danno un esempio di grande validità.

(indietro)                                                                                                                                        (segue)