la Società: il Sindacato

Il sindacato è una istituzione non naturale, cioè non intrinseca alla natura dell’uomo, ma inventata dagli uomini nel corso della storia, in particolari situazioni storiche e sociali.

Esso deriva comunque da una tendenza naturale dell’uomo, che è quella di associarsi per difendere meglio i propri interessi, tendenza da cui derivano direttamente Stato e Chiesa, ed in una certa misura anche la famiglia, sebbene questa abbia nell’aspetto sessuale e riproduttivo la sua causa principale.

Nel corso della storia, associazioni, talora improvvisate, per la difesa degli interessi di una categoria di persone, si sono presentate spesso: in modo più duraturo e regolare per le classi dominanti o comunque privilegiate, che sempre hanno dato vita ad associazioni, consorterie o istituzioni altrimenti chiamate, che servivano a difenderle dagli attacchi delle altri classi (inferiori o superiori): nobiltà, patriziato, cavalleria, corporazioni artigiane o commerciali, sono tutte forme di associazione a fine difensivo all’interno della società.

Qui però intendiamo parlare di quelle forme di associazione particolari proprie delle classi inferiori (usiamo la parola in senso propriamente economico o gerarchico, non certo in senso morale o di valore), sorte per la difesa di queste nei confronti della o delle classi dominanti, che nei rapporti singoli diretti avrebbero altrimenti sempre prevalso.

La creazione del Tribunato della Plebe, nella Repubblica Romana, testimonia della aspirazione della classe inferiore (ma pur sempre formata da uomini liberi) ad avere istituzione dedicate alla sua difesa, che trovava nei Tribuni l’ufficializzazione e la formalizzazione all’interno dello Stato.

Ben altra sorte toccava alle classi veramente inferiori, quelle degli uomini non liberi, gli schiavi, che per tutta l’antichità fornivano alla società la forza lavoro. Questi erano attentamente sorvegliati affinché non dessero origine ad associazioni tra di loro, bollate come illegali e sovversive.

Lo scoppio di terribili guerre servili, nell’antichità romana, come delle rivolte dei contadini, nel Medioevo, fino a tutta l’epoca della Riforma, in ambiente protestante, testimoniano dei tentativi, sempre repressi, di formazione di organismi di autodifesa da parte dei diseredati cui era toccata la sorte della servitù.

Perfino l’improvvisa fine della curiosa e straordinaria civiltà dell’isola di Pasqua, dedita alla costruzione ed alla erezione di immense teste di pietra, sembra dovuta alla inaspettata e cruenta rivolta della classe servile incaricata e forzata alla costruzione di tali sculture totemiche, il cui vero scopo e significato resta ancora misterioso.

Noi vorremmo qui parlare solamente di quella degenerazione delle forme associative di difesa, costituita dal Sindacato come si è andato sviluppando in Italia.

 

 

 Curiosità e precedenti storici

  • La rivolta dei mercenari a Cartagine

Cartagine, città di mercanti, armò normalmente eserciti costituiti prevalentemente, se non esclusivamente, di mercenari. Dopo la prima guerra punica, l’esercito sconfitto, tornato in patria, richiedeva il pagamento, a torto od a ragione, della paga dovuta, che lo Stato sconfitto faticava a riconoscergli. Ne nacque una rivolta sanguinosa. Questa ricostruzione del Michelet, che inizia dalla descrizione dell’assemblea dei ribelli, che devono decidere la sorte dei messi cartaginesi, fatti proditoriamente prigionieri, documenta quali fossero le usanze sindacali del tempo:

Dopo Autarito (capo dei mercenari Galli, ndr) parlarono altri di varie nazioni i quali, essendo per benefici e favori ricevuti legati a Giscone (rappresentante cartaginese fatto prigioniero, ndr), supplicavano che almeno gli fossero risparmiate le torture. Parlavano essi tutti insieme ognuno nella propria lingua e non si capiva cosa dicessero. Ma non appena si comprese che invocavano la grazia, taluni gridarono: A morte! A morte! E gli sciagurati intercessori furono uccisi a sassate. Quindi la soldataglia furibonda andò a prelevare Giscone ed i suoi, settecento in tutto, e trascinatili fuori dal campo, tagliarono loro le mani e le orecchie, poi ruppero loro le gambe, e semivivi li gettarono in una fossa…

Amilcare (generale Cartaginese, padre di Annibale, ndr), scacciati i mercenari dalla pianura per mezzo dei suoi cavalieri numidi, ed incalzatili nei monti, riuscì a chiudere uno dei loro eserciti in una forra detta dell’Azza, dove non potevano né combattere per le angustie del luogo, né fuggire, così che la fame li ridusse all’orribile necessità di mangiarsi l’un l’altro. Prime vittime furono i prigionieri e gli schiavi; ma esaurita questa risorsa Spendio, Autarito e gli altri capi, minacciati di morte dalla moltitudine, furono costretti a chiedere un salvacondotto ad Amilcare per recarsi da lui ed invocare salvezza. Glielo concesse Amilcare, e pattuì con gli ambasciatori che, ad eccezione di dieci persone scelte da lui, agli altri sarebbe stato concesso di andarsene liberi, con un solo vestito da portare addosso. Compiuto l’accordo, Amilcare disse agli ambasciatori: “Voi siete dei dieci” e, fattili prigionieri mosse contro l’esercito accerchiato nella forra. Chiusa com’era ogni via di scampo, di quarantamila ribelli non se ne salvò alcuno. L’altro esercito non ebbe sorte migliore: Amilcare lo sterminò in battaglia campale e catturò il suo capo, quel Mato di cui si è fatto cenno. Questi, condotto a Cartagine, fu dato in ludibrio alla plebaglia che su lui si vendicò della paura provata.

Giulio Michelet, Storia di Roma, Ed. Italiana di Cultura, Roma, 1958, p. 220.

 

  • Le guerre servili

Ben tre furono le guerre servili che inflissero a Roma, tra il 138 ed il 70 a.C., lutti e sciagure di ogni genere. Esse erano originate dalle rivolte degli schiavi, che, affluiti a Roma da ogni parte per le sue vittorie militari, erano utilizzati per i lavori nei campi in condizioni normalmente durissime.

La terza guerra fu quella, famosissima, originata dalla rivolta dei gladiatori di Capua, guidati da Spartaco.

Leggiamo sempre dal Michelet la storia della prima guerra, scoppiata in Sicilia, granaio della Repubblica.

La prima guerra servile scoppiò in Sicilia, nella città di Enna (138 a.C.). Uno schiavo sirio di Apamea, di nome Euno, che presumeva di essere ispirato dalla dea di Siria a predire il futuro, spesso aveva vaticinato il vero. Oltre al credito acquistato con i suoi vaticini, questo impostore era anche venerato dagli altri schiavi perché sapeva gettare fiamme dalla bocca, bastandogli per un tal sortilegio porre un poco di fuoco nel guscio perforato di una noce che teneva in bocca. Euno aveva più volte predetto che sarebbe diventato re. Molti si prendevano gioco di questo suo futuro regno e lo chiamavano ai conviti per farlo parlare e gli facevano regali per accattivarsi i suoi favori per l’avvenire. Ma il suo vaticinio, che non era da prendere in riso, si avverò. La rivolta degli schiavi ebbe inizio in casa di un certo Damofilo, uomo crudelissimo, i cui schiavi ucciso il padrone, acclamarono re il profeta.

La rivolta dilagò rapidamente ad Enna con la strage dei padroni. Un Cilice, che aveva fatto ribellare gli schiavi altrove, si sottomise ad Euno il quale in breve tempo si trovò alla testa di duecentomila schiavi e prese il nome di Antioco re. Diffusasi la notizia della rivolta in Sicilia, nacquero tumulti e sommosse nell’Attica, nell’isola di Delo, nella Campania e a Roma stessa. In Sicilia, gli schiavi ribelli si impadronirono di alcune città fortificate e sbaragliarono per quattro anni consecutivi i generali romani inviati contro di loro. Quattro pretori furono vergognosamente volti in fuga. Ma infine la fortuna abbandonò i ribelli. Rupilio ne assediò una parte in Turomenio, città marittima dalla quale avrebbero potuto comunicare con l’Italia, e li ridusse al punto di mangiarsi l’un con l’altro, mancando completamente di viveri; poi, introdotto nella rocca mercé il tradimento di uno degli assediati, li catturò tutti e li fece gettare da una rupe altissima. Lo stesso avvenne ad Enna dov’era rinchiusa un’altra parte dei ribelli. Il Cilice, che era luogotenente di Euno, resistette ai romani con eroico valore, ma venne ucciso in una sortita. Il re Antioco, che non era ugualmente coraggioso, andò a rifugiarsi in una spelonca dove fu catturato con il suo cuoco, il suo fornaio, il suo untore ed il suo buffone. Si promulgarono leggi atrocissime per incutere timore agli schiavi i quali, infatti, non si mossero più per ventotto anni.

Giulio Michelet, Storia di Roma, Ed. Italiana di Cultura, Roma, 1958, p. 324.

 

  • Il sindacato delle donne alla conquista del foro

Tito Livio ci narra questo curioso fatto. Due tribuni della plebe avevano chiesto l’abolizione della legge Oppia, così chiamata dal nome del suo latore, il tribuno Gaio Oppio. Secondo questa legge:

…ne qua mulier plus semunciam auri haberet neu vestimento uersicolori uteretur neu iuncto uehiculo in urbe oppidoue aut propius inde mille passu nisi sacro rum publicorum vausa ueheretur.

(…nesuna donna doveva possedere più di mezza oncia d’oro, né indossare vesti multicolori, né andare in carrozza a Roma o in altra città o in un raggio di mille passi da esse, se non in occasione di festività religiose pubbliche)

La narrazione prosegue:

Le matrone non potevano essere trattenute in casa da nessuna raccomandazione, da nessun senso di verecondia, da nessun ordine dei loro mariti, ma bloccavano tutte le vie della città e gli accessi al foro, pregando gli uomini che vi si recavano di consentire che venisse restituito anche alle matrone il loro abbigliamento di un tempo…e i patrimoni privati…

Questa folla di donne si faceva sempre più fitta con il passare dei giorni; infatti ne affluivano anche dalle città e dai borghi circostanti. Ormai osavano avvicinarsi ai consoli, ai pretori e agli altri magistrati per rivolgere loro degli appelli; ma non si lasciava affatto vincere dalle preghiere almeno uno dei due consoli, Marco Porcio Catone, il quale così parlò in favore della legge che si intendeva abrogare.

“Se ciascuno di voi, o Quiriti, si fosse proposto di conservare la propria autorità e la propria dignità di marito nei confronti della propria moglie, avremmo meno da fare con tutte quante le donne; ora la nostra libertà, abbattuta in casa dalla prepotenza femminile, anche qui nel foro viene conculcata e, poiché non le abbiamo tenute a freno una per una, ora ne abbiamo timore nel loro insieme (quia singulas sustinere non putuimus, universas horremus).”

“Io, da parte mia, ritenevo che fosse una storiella priva di fondamento che in una qualche isola l’intera stirpe dei mariti fosse stata totalmente eliminata da una congiura di donne; ma ogni categoria di persone è estremamente pericolosa, nel caso le si conceda di tenere riunioni, assemblee e consultazioni segrete. E io a stento posso chiarire a me stesso se sia peggiore il fatto in sé o il precedente che esso origina, perché il fatto riguarda noi consoli e gli altri magistrati, il precedente piuttosto voi, o Quiriti…”

“Invero, non senza un certo rossore sono giunto poco fa nel foro, passando in mezzo ad una schiera di donne. E se, perché non sembrassero aspramente rimproverate da un console, non mi avesse trattenuto il rispetto per la dignità e per il senso del pudore delle singole  più che della loro totalità, avrei detto loro: “Che abitudine è questa di uscire fuori, correndo, in pubblico, di bloccare le strade e fare appello ad estranei? Non avreste potuto rivolgere tali richieste, ciascuna al proprio marito, a casa? O forse siete più seducenti in pubblico che in privato, e con i mariti delle altre piuttosto che con i vostri?…”

“Dunque, allentate i freni alla loro natura incapace di dominarsi, a questo essere indocile, e sperate che siano esse a porre un limite alla loro intemperanza: se non lo farete voi, questo è solo il più piccolo tra i freni che le donne sopportano malvolentieri…E’ la completa libertà, anzi, se vogliamo dire la verità, la piena licenza che esse desiderano! Che cosa infatti non tenteranno, se otterranno questo?”

Tito Livio, Storia di Roma, Libro XXXIV, cap. I.

 

 

  • Lungo elenco di movimenti sindacal-popolari nel medioevo

Nel sito www.homolaicus.com, possiamo trovare un lungo elenco di moti, ribellioni, scioperi e tumulti popolari, suscitati dal malcontento dei ceti lavoratori, durante gli anni precedenti la Riforma:

  • Tumulto dei follatori a Bologna risalente al 1289.
  • Scioperi in diverse città dell’Inghilterra e delle Fiandre nel 1311-13.
  • Nel movimento dei “pastorelli” nella Francia del 1320 si congiungono motivi di protesta religiosa e rivendicazione sociale.
  • Nelle Fiandre nel 1323-28 vi furono rivolte contadine, stroncate dall’esercito francese.
  • Scioperi a Gand (Fiandre) nel 1337.
  • Una rivolta contadina in Danimarca nel 1340.
  • Tumulti dei tessitori a Poznan (Polonia) nel 1344.
  • Nel 1345 si registrò a Firenze lo sciopero dei tintori, guidato da Ciuto Brandini, che venne condannato a morte come sedizioso.
  • Nel 1346-54 scioperi e agitazioni, congiunte con manifestazioni antisemite, a seguito dell’epidemia di peste in diverse aree della Germania e della Francia.
  • I contadini francesi della Jacquerie (Ile-de-France) nel 1358 si sollevarono, demolendo i castelli e requisendo le terre dei signori feudali.
  • Il movimento dei tuchins (miserabili) in Linguadoca (Francia), si estende in Piemonte negli anni 1363-84.
  • Scioperi in Polonia nel 1375-95 contro il divieto di costituire associazioni di lavoratori salariati.
  • Agitazioni e ribellioni in diverse città della Boemia nel 1377-84.
  • I Ciompi di Firenze, popolo minuto di opifici e arti minori, presero nel 1378 il comune di Firenze, riformarono arti e mestieri. I padroni fuggirono in campagna, da dove li affamarono cingendo d’assedio la città. Dopo due anni di stenti li sconfissero, restaurando l’oligarchia.
  • Moti e agitazioni a Puy e a Nimes (Francia) nel 1378.
  • Disordini e sollevazioni a Gand e in diverse città francesi nel 1379.
  • Sollevazioni nelle Fiandre (soprattutto a Bruges e a Gand) nel 1380.
  • Agitazioni antifiscali in diverse località della Francia nel 1380.
  • Disordini a Lubecca (Germania) nel 1380.
  • I contadini d’Inghilterra presero le armi contro i nobili per porre fine a gabelle e imposizioni. Nel 1381 seguirono la predicazione di John Ball e con roncole e forconi si diressero verso l’Essex e il Kent, occuparono Londra, appiccarono fuochi, saccheggiarono il palazzo dell’arcivescovo, aprirono le porte delle prigioni. Per ordine di re Riccardo II molti di loro salirono sul patibolo.
  • Rivolte antifiscali in Francia nel 1382; agitazioni a Parigi e a Rouen (stroncate l’anno dopo).
  • Iniziano in Catalogna nel 1395 le agitazioni dei contadini spagnoli, che per quasi un secolo si opporranno ai loro signori (fino al 1471).
  • Agitazioni nelle campagne dello Jütland (Danimarca) nel 1411.
  • Gli ussiti e i taboriti, artigiani e operai boemi, ribelli al papa, al re e all’imperatore, dopo che il rogo consumò Jan Hus, nel 1419 assalirono il municipio di Praga, defenestrarono il borgomastro e i consiglieri comunali. Il re Venceslao morì di infarto. I principi d’Europa mossero loro guerra. Chiamato alle armi il popolo ceco, fu respinta ogni invasione, anzi il movimento contrattaccò in Austria, Ungheria, Brandeburgo, Sassonia, Franconia, Palatinato… Furono aboliti il servaggio e le decime. Gli insorti vennero sconfitti dopo trent’anni di guerre e crociate.
  • Rivolte contadine nella Francia centro-meridionale nel 1422-31.
  • Vari episodi di ribellismo assieme a forme di brigantaggio nelle campagne francesi nel 1435-65.
  • Sollevazioni dei contadini in Scandinavia nel 1436-40.
  • Rivolta di ispirazione lollarda (seguaci di Wycliff) in Inghilterra nel 1450.
  • La ribellione dei contadini catalani nel 1462 portò a un’ondata di sollevazioni in Spagna che durò fino al 1487.
  • Trentaquattromila risposero all’appello di Hans il pifferaio nel 1476. Il programma era chiaro: “Niente più re né principi. Niente più papato né clero. Niente più tasse né decime. I campi, le foreste e i corsi d’acqua saranno di tutti. Tutti saranno fratelli e nessuno possiederà più del suo vicino.” Ma i cavalieri del vescovo catturarono Hans, poi attaccarono e sconfissero gli insorti. Hans bruciò sul rogo.
  • I seguaci dello “Scarpone”, salariati e contadini d’Alsazia, che nel 1493 cospirarono per giustiziare gli usurai e cancellare i debiti, espropriare le ricchezze dei monasteri, ridurre lo stipendio dei preti, abolire la confessione, sostituire al Tribunale Imperiale giudici di villaggio eletti dal popolo. Il giorno di Pasqua attaccarono la fortezza di Schlettstadt, ma furono sconfitti e molti di loro impiccati o mutilati ed esposti al dileggio delle genti. Ma quanti riuscirono a salvarsi portarono lo Scarpone in tutta la Germania. Dopo anni di repressione e riorganizzazione, nel 1513 lo “Scarpone” insorse a Friburgo. Susseguirsi di rivolte contadine in Germania dal 1487 al 1517.
  • I contadini di Svevia (Povero Konrad) si ribellarono alle tasse su vino, carne e pane nel 1514. In cinquemila minacciarono di conquistare Schorndorf, nella valle di Rems. Il duca Ulderico promise di abolire le nuove tasse e ascoltare le lagnanze dei contadini, ma voleva solo prendere tempo. La rivolta si estese a tutta la Svevia. I contadini mandarono delegati alla Dieta di Stoccarda, che accolse le loro proposte, ordinando che Ulderico fosse affiancato da un consiglio di cavalieri, borghesi e contadini e che i beni dei monasteri fossero espropriati e dati alla comunità. Ma Ulderico convocò un’altra Dieta a Tubinga, si rivolse agli altri principi e radunò una grande armata con la quale riuscì ad espugnare la valle di Rems: assediò e affamò gli insorti sul monte Koppel, depredò i villaggi, arrestò sedicimila contadini, sedici furono decapitati, gli altri condannati a pagare forti ammende.
  • I contadini d’Ungheria, riunitisi per la crociata contro il Turco, decisero invece di muover guerra ai signori, nel 1514. Sessantamila uomini in armi, guidati dal comandante Dosza, portarono l’insurrezione in tutto il paese. L’esercito dei nobili li accerchiò a Czanad, dov’era nata una repubblica di eguali. Li presero dopo due mesi di assedio. Dosza fu arrostito su un trono rovente, i suoi luogotenenti costretti a mangiarne le carni per aver salva la vita. Migliaia di contadini furono impalati e impiccati.

 

  •  L’insurrezione contadina nella Germania, dopo la Riforma

Subito dopo la Riforma, in Germania si verificano rivolte dei contadini, che vengono stroncate dalla nobiltà, con l’appoggio dello stesso Lutero, avverso ad altre ribellioni che non fossero la sua.

Inizialmente le sommosse si diffusero nelle regioni meridionali, dove più forte era l’oppressione feudale, laica ed ecclesiastica, che voleva, da un lato, liberarsi della tutela imperiale e, dall’altro, sostituire l’antico diritto consuetudinario, che consentiva una certa autonomia nell’amministrazione dei villaggi contadini, col diritto romano, che permetteva una più facile instaurazione di rapporti basati sulla proprietà privata e una più rapida ed efficiente centralizzazione statale-territoriale. L’inasprirsi del giogo feudale era divenuto tanto più pesante nelle campagne quanto più nelle città si sviluppavano i rapporti borghesi.

In tal senso la risolutezza del movimento contadino e la radicalizzazione delle correnti riformistiche anticattoliche praticamente si influenzavano a vicenda.

Il primo scontro sanguinoso avvenne alla fine del 1524, allorché nella città di Villingen il magistrato, dopo essere riuscito con false promesse a dividere gli insorti, fece piombare su di loro l’esercito.

La reazione dei contadini non si fece attendere: castelli e monasteri cominciarono ad essere occupati e distrutti. Tra le posizioni moderate, che chiedevano soltanto, tramite nuove intese, un’attenuazione degli oneri padronali, vi fu quella di Huldreich Zwingli, il quale a Zurigo ebbe successo tra i contadini più abbienti e meno clericali. Anche se, proprio grazie a Zwingli e ad altri predicatori che avevano insistito molto più di Lutero sul concetto di “comunità” come organismo che riuniva in sé sia i legami politici e sociali (consociativo-federativi), sia quelli religiosi, ogni città aveva il diritto di dirimere autonomamente le controversie dottrinali che sorgevano tra diversi predicatori (com’era accaduto appunto a Zurigo qualche anno prima della guerra dei contadini). Gli abitanti dei villaggi poterono così esprimere in un linguaggio religioso, comune a tutti, le loro aspirazioni all’autogoverno nei confronti dei principi e dei signori territoriali. Zwingli cadde nella battaglia di Kappel che vide lo scontro dei suoi seguaci con l’esercito dei cantoni cattolici nel 1531.

I contadini furono di nuovo attaccati nella primavera del 1525, questa volta dagli eserciti della Lega sveva, una federazione militare tra i principi e le città imperiali della Germania sud-occidentale. Pur essendo male armati e organizzati, essi, negli scontri militari con gli eserciti della reazione, sapevano difendersi egregiamente. Ma ciò che ad un certo punto li demoralizzò fu l’atteggiamento conciliante dei ceti borghesi, sia urbani che rurali, i quali, spaventati dagli esiti rivoluzionari dell’insurrezione e soprattutto dopo le prime sconfitte militari (a Leipheim il 4 aprile 1525 e a Böblingen il 12 maggio), presero a intavolare trattative segrete, finita la primavera del 1525, con le forze della reazione. In particolare due gruppi di ribelli (di Bodensee e di Allgau) condussero trattative di pace col conte Ugo di Montfort e i rappresentanti della città di Ravensburg. Al testo del patto Lutero aggiunse un’introduzione e una conclusione in cui dimostrava d’essere diventato molto ostile ai contadini che non aspiravano a una soluzione pacifica dei conflitti sociali.

Non restavano che la Sassonia e la Turingia, dove le forze residue (circa 8.000 contadini) erano capeggiate da Müntzer. Ma anche qui non ci fu storia: la scarsa preparazione militare dei contadini si rivelò decisiva nello scontro armato nella città di Frankenhausen contro i lanzichenecchi guidati da Filippo d’Assia, Giorgio di Sassonia ed Enrico di Braunschweig (principe luterano il primo, cattolici gli altri due), nel maggio 1525. Vi morirono 5.000 contadini e lo stesso Müntzer, straziato dal boia e decapitato. Lutero, nel testo Una terribile storia e un giudizio di Dio sopra Thomas Müntzer, considerò l’eccidio un segno della giustizia divina.

Dopo quella terribile primavera del 1525, il movimento perse terreno; altre fiammate rivoluzionarie, con punte notevoli di organizzazione politico-militare, si ebbero in zone periferiche dell’Impero, tra cui il Tirolo, dove emerse la figura di Michael Gaismair. Questi moti, però, a differenza dei precedenti, ebbero soltanto una dimensione regionale…

Nel complesso i principali artefici, materialmente, della disfatta militare della guerra contadina (che si era sviluppata da Berna a Lipsia, da Besançon a Linz, lungo due assi di oltre 600 km) furono il duca di Lorena in Alsazia, il langravio Filippo d’Assia in Turingia, Georg Truchsess von Waldburg in Svevia e Franconia.

da www.homolaidus .com

 

 

Il Sindacato oggi

I tempi moderni, fortunatamente, introducono un nuovo mezzo di stipula dei contratti di lavoro, diverso dalla presa in schiavitù o dalla destinazione forzata a questa o quella professione, con condizioni lavorative definite dalla maggior lunghezza della spada di uno dei due contraenti (normalmente quello che non lavorava): la libera scelta delle parti.

Questa nuova condizione, propria degli Stati liberali, e non altre (scioperi, trattative, tumulti e cortei vari) determina le linee caratteristiche della nostra società, anche per quanto riguarda il mondo del lavoro. In aggiunta, in democrazia è il numero che fa la forza, cosicché le classi popolari hanno molta più probabilità di ottenere leggi a loro favore di quanto ne abbiano le categorie cosiddette privilegiate. E’ per questo che Paesi non particolarmente sindacalizzati (Stati Uniti, Svizzera, Austria, Canada ecc.) mostrano situazioni più favorevoli ai lavoratori di altri (come il nostro), dove i Sindacati fanno il bello ed il brutto tempo (molto più il brutto, del bello) e infinitamente migliori di quelli dove, per loro sfortuna, certe teorie sindacali sono state applicate.

La libera scelta delle parti, infatti, non permette che alcuno sia costretto ad accettare condizioni peggiori di quelle che potrebbe trovare altrimenti, facendo un altro lavoro o lavorando per conto proprio. In tal modo si ha un adeguamento spontaneo delle condizioni di lavoro al meglio di quanto il sistema economico permetta, per il meccanismo della concorrenza tra le offerte di lavoro (un datore di lavoro che offrisse troppo poco, si ritroverebbe senza manodopera, e ciò è ancor più vero per la scarsità del lavoro disponibile nelle economie capitaliste avanzate, dove vi è la piena occupazione).

Personalmente reputo l’azione del Sindacato in Italia particolarmente deleteria per il Paese e per i lavoratori, e cercherò in queste pagine di dimostrare il perché di quest’asserzione.

I Sindacati italiani sono storicamente più influenzati dalle ideologie marxiste (comunismo o socialismo) che dal liberismo, teoria che regge i sistemi economici e produttivi dei paesi occidentali. Questo li induce a prendere regolarmente posizione per soluzioni economicamente sbagliate e dannose, che essi difendono con puntiglio e prepotenza, fino all’uso sistematico dell’illegalità e della violenza verso coloro che non li seguono nelle loro lotte (quest’ultimo punto è, in verità, oggi molto meno vero che nel passato ma occupazioni, blocchi stradali, picchetti, cortei interni hanno fatto parte dell’armamentario sindacale per lunghi decenni, ed oggi sono usati ancora dalle frange più estreme del colorito mondo sinistrese).

Vediamo alcune di queste posizioni, strenuamente difese dal sindacato, a danno dei lavoratori.

 

  • Scala mobile

Con questo termine si intende una istituzione per la quale i salari e gli stipendi vengono automaticamente adeguati all’inflazione. Per decenni in Italia, ogni quattro (o forse tre) mesi, scattava l’aumento della scala mobile, e ogni retribuzione veniva aumentata di una percentuale pari all’aumento dei prezzi del quadrimestre (o trimestre) precedente.

Per decenni il Sindacato si è impuntato a difendere questo sistema, spacciandolo per metodo di difesa della capacità di acquisto contro l’aumento dei prezzi. Il risultato fu il raggiungimento di un’inflazione a due cifre (quasi il 20% annuo) e la distruzione, a vantaggio dello Stato, dei risparmi degli Italiani, incamerati dall’Erario attraverso la stampa di carta moneta.

Contro coloro che invocavano la soppressione di questo metodo, si terrorizzavano i lavoratori, affermando che in tal modo l’inflazione li avrebbe in breve ridotti alla miseria più nera.

Quando finalmente Craxi si decise a bloccare in gran parte il meccanismo, ed un referendum gli diede ragione, si vide finalmente quello che qualsiasi persona di buon senso sapeva: l’inflazione si fermò di botto e non si verificò mai più nella misura a cui era giunta in regime di scala mobile; era questa ultima la vera causa dell’inflazione, poiché ogni aumento di salario provocava l’identico aumento dei prezzi, per un meccanismo economico di facile spiegazione e di impossibile eliminazione.

Per capire il perché di quanto avveniva, occorre una breve digressione che chiarisca quale è la legge che porta alla determinazione del valore di una moneta, cioè che regola la formazione primaria dei prezzi.

In un sistema chiuso, la quantità di denaro disponibile per essere spesa è pari alla quantità di beni disponibili per essere acquistati. Il valore del denaro si adegua automaticamente, per il meccanismo della domanda e dell’offerta, in modo che questa equazione sia sempre verificata.

Infatti, se la quantità di denaro è maggiore della quantità di beni, resterà del denaro non spendibile, quando i beni sono finiti (fenomeno che succede regolarmente quando si tenta di calmierare i prezzi artificialmente: la merce finisce e non ce n’è più, anche se si hanno i soldi). La conseguenza è che il denaro vale di meno, ed i prezzi aumentano. Al contrario, se vi sono molti più beni che denaro, restano beni invenduti, perché i soldi finiscono: il venditore è perciò costretto a diminuire i prezzi.

E’ perciò evidente che aumentare in blocco la totalità delle retribuzioni di un Paese, ha il solo effetto di fare aumentare in blocco tutti i prezzi di tale quantità. Altrimenti sarebbe facile per ogni Paese divenire ricco: basterebbe stampare carta moneta, moltiplicando per dieci o per cento la cifra scritta sopra. I paesi che ci hanno provato, sono quelli dove occorreva portarsi la carriola per andare a fare la spesa: la carriola serviva per i soldi, mentre la scarsella bastava per la merce con questi comperata.

 

  • Contrattazione periodica

Ancor peggio della scala mobile è l’abitudine invalsa dalla pratica sindacale di stipulare contratti di lavoro di breve durata, bi o tri-ennali, che vengono rinnovati dopo una sequenza cerimoniale di scioperi, periodicamente ripetuta, con lo scopo principale di ottenere un aumento salariale.

L’osservazione principale che si fa a questa pratica è la stessa che rendeva inutile e dannosa la scala mobile, ma con un elemento peggiorativo: la scala mobile scattava uguale per tutti, senza bisogno di scioperi e lotte, cioè senza perdite nella produzione di quei beni che costituiscono la vera ricchezza del Paese. La contrattazione, invece, si svolge categoria per categoria, costituendo un elemento di squilibrio nelle retribuzioni delle varie categorie, squilibrio che deve essere colmato da altri scioperi, lotte e contratti. Sostanzialmente, il metodo dei contratti periodici costituisce una lotta non contro i datori di lavoro, che alla fin fine rimediano ai maggiori costi con aumenti di prezzi, possibili se gli aumenti riguardano un intero settore merceologico, ma una lotta tra le categorie di lavoratori, che cercano di ottenere vantaggi l’una sull’altra. Il vantaggio reale ottenuto dai lavoratori nel loro complesso è invece nullo, perché immediatamente assorbito dal conseguente aumento di prezzi. Solo una categoria che non ottenesse a sua volta un nuovo contratto risulterebbe danneggiata, nei riguardi delle altre, e questo giustifica la corsa di tutti alla contrattazione, con l’aumento del potere e del prestigio dei Sindacati.

La situazione diviene però drammatica in presenza di un mercato globale e di una moneta non svalutabile, dove gli aumenti concessi possono far saltare la concorrenza a livello mondiale, escludendo interi settori economici dalla possibilità di competere.

 

Ma, si dirà, se togliamo ai lavoratori la possibilità di contrattare aumenti salariali, come contrasteremo l’ingordigia del padrone, che tratterrebbe ogni utile per sé, riducendo il dipendente alla miseria? Questa domanda è possibile solo se si è prigionieri della dottrina marxista, secondo la quale, poiché il padrone trattiene per sé il plusvalore (cioè la differenza tra il valore della merce e quello del lavoro impiegato), i padroni diverranno sempre più ricchi e i lavoratori sempre più poveri. In realtà si tratta di una semplice idiozia, neppur giustificabile dal punto di vista logico e argomentativo, smentita da tutte le esperienze reali dei paesi cosiddetti capitalisti.

L’errore fondamentale del marxismo è di confondere un rapporto padrone-schiavo, dove lo schiavo è costretto con la forza a lavorare alle condizioni impostegli, con un rapporto contrattuale libero, dove il lavoratore, se non contento, può cercarsi un altro lavoro e lasciare il pretendente padrone a lavorare da solo.

Vi sono, altresì, almeno altri tre grandi fattori che rendono il capitalismo, o meglio il liberismo, il sistema economico che più efficacemente distribuisce ricchezza a tutti:

  • L’enorme produzione di beni permessa dallo sviluppo tecnologico, rende indispensabile vendere questi beni agli stessi lavoratori. Infatti, il meccanismo con cui il padrone trattiene ricchezza dal lavoro impiegato, non è la sottrazione dei beni prodotti, come avveniva nel Medio Evo, dove il feudatario si impadroniva dei prodotti del lavoro agricolo dei sottoposti, ma la vendita dei beni stessi, nella maggior quantità possibile: maggiore è la quantità dei beni prodotta, maggiore è la distribuzione di questi beni tra l’intera popolazione, e solo in tal modo il capitalista ottiene il suo guadagno. Agnelli, o chi per lui, non può godere delle sue automobili se non ne vende due o tre ad ogni famiglia.
  • Il meccanismo di creazione dei prezzi, che scaturiscono dal libero confronto tra domanda e offerta, porta a definire prezzi che permettano la vendita di tutti i beni disponibili. Anche in questo caso la retorica populista confonde solo le idee alla gente: quante volte abbiamo sentito invocare il controllo dei prezzi da parte del governo quando questi vengono giudicati troppo alti. In realtà, quando i prezzi sono alti, è perché la merce è poca: il problema è quindi di aumentare la produzione, non di abbassare i prezzi. Infatti, anche con i prezzi bassi, il numero dei possibili acquirenti resta sempre quello, anzi, diminuisce, perché i primi che comprano tendono a non moderare l’acquisto, come farebbero se il prezzo fosse più alto, e gli ultimi non trovano la merce, a meno che i primi non gliela rivendano a prezzo maggiorato (borsa nera). Invece il prezzo alto incoraggia la produzione del bene mancante, produzione che non aumenterebbe se il prezzo rimanesse basso: sarà l’aumento della disponibilità della merce ad abbassare realmente i prezzi.

Il meccanismo di formazione dei prezzi agisce anche in caso di monopolio, poiché anche in tal caso il monopolista deve vendere una quantità elevata di merce per guadagnare di più, e quindi deve abbassare i prezzi fino a rendere la merce comprabile.

  • La concorrenza tra i vari produttori porta ulteriormente i prezzi ancora più in basso di quello che sarebbero in regime di monopolio. Infatti, in regime di monopolio, il venditore ha come unica controparte l’acquirente, e può fermare la sua offerta ad un livello quantitativo tale che il prezzo spuntato massimizzi gli utili. In regime di concorrenza, invece, i prezzi tendono a scendere fino a raggiungere quasi i costi, con un piccolo margine di guadagno, limitato dalla lotta per la conquista del mercato.

 

Questi tre meccanismi sono di per sé sufficienti a garantire che il potere di acquisto dei salari e stipendi aumenti da solo all’aumentare della capacità produttiva del Paese, senza ulteriori lotte e scioperi, che invece abbassano tale capacità, ed hanno come conseguenza l’impoverimento generale.

Su questo argomento aggiungiamo una nota esplicativa, che dovrebbe servire a capire come, qualsiasi sia il livello delle retribuzioni, il prezzo dei beni è sempre tale da renderli acquistabili: il costo di un bene prodotto è quasi esclusivamente quello della manodopera (fisica o intellettuale) impiegata a produrlo (il costo della materia prima è anch’esso il costo della manodopera utilizzata a produrla, salvo i casi di rendita di posizione dei beni rari). Pertanto, il prezzo del bene prodotto è necessariamente adeguato alla retribuzione ricevuta da chi lo produce, dal momento che il suo costo è proprio tale retribuzione. Questo vale complessivamente per l’intera economia.

In tale ottica, il giusto ruolo della contrattazione, dovrebbe essere quello normativo, per garantire al lavoratore ambienti e condizioni di lavoro sicure e dignitose, ma soprattutto per impedire che una mentalità esclusivamente produttivistica e consumistica riduca la vita della popolazione al solo lavoro e riposo, con intermezzi di rimbecillimento ricreativo.

 

Sul tema della formazione dei prezzi, vorrei fare una piccola digressione riguardante il mercato edilizio, cioè quello delle abitazioni. In questo campo molti si lamentano dei prezzi eccessivi (anche se ogni nuova realizzazione posta sul mercato trova chi la compra). In realtà ci si accorge che il maggior ostacolo alla costruzione di case a basso prezzo è la disponibilità del terreno edificabile, il cui prezzo costituisce ormai più della metà del costo della casa. Per ovviare a tale problema, il potere pubblico, dopo aver condotto una sciagurata politica di scoraggiamento alla costruzione di nuove case, mediante il blocco dei fitti, non trova di meglio che porre limiti sempre più stringenti alla utilizzabilità dei terreni, limitando la cubatura e l’altezza costruttiva. In tal modo, invece di edificare grattacieli come in ogni altra parte del mondo civile, qui si costruisce in piano, distruggendo enormi quantità di terreno agricolo, che potrebbe invece rimanere verde, e facendo un tal modo sempre più aumentare il prezzo dei terreni e delle case su questi costruite.

 

  •  Diffusione e difesa dello Statalismo

Il sostanziale adeguamento alle ideologie marxiste da parte del Sindacato è evidente anche dal suo atteggiamento costante in favore dell’ampliarsi degli interventi statali in economia, dall’opposizione, al contrario, ad ogni liberalizzazione, dal sostegno compatto ad ogni richiesta del mondo politico-burocratico nei livelli retributivi, ma soprattutto nei privilegi normativi.

Per sostenere tali posizioni, il Sindacato ha diffuso l’idea che il nemico, od almeno la controparte del lavoratore sia la proprietà privata. Al contrario, il lavoratore condivide con la proprietà gran parte degli interessi oggettivi, verso uno sviluppo maggiore della produzione dei beni che costituiscono la sua vera ricchezza. Il mondo del lavoro trova invece nel parassitismo statale la vera remora all’aumento del suo benessere. Abbiamo più sopra sostenuto che la ricchezza del lavoratore è data dalla quantità dei beni prodotti: questo è solo parzialmente vero, quando si ha un gran numero di persone che non producono beni utilizzabili, ma che, ricevendo una retribuzione, ne consumano, sottraendoli agli altri. Questo è il caso delle burocrazie statali, o di quei finti lavoratori che sviluppano in quattro il lavoro di uno. Questi sono in realtà la vera controparte dei lavoratori autentici, dalla quale dovrebbero essere protetti dal Sindacato.

Ad ogni lavoratore che produce, lo Stato si preoccupa di mettere a carico non solo giovani e vecchi, disoccupati e malati, ma almeno un’altra famiglia (quella del burocrate, o del politico, o, magari, del sindacalista di professione, il cui unico prodotto sono carte, chiacchiere e pratiche ostruzionistiche varie). Si limitassero, infatti, i burocrati a non lavorare, li potremmo anche sopportare; ma nel tempo che rimane loro tra caffè, giornale, discussioni sulla partita o sul festival, essi trovano purtroppo anche occasione per giustificare il loro posto di lavoro inventando e creando sempre nuovi intralci a chi lavora davvero: leggi, regolamenti, interpretazioni sempre più complicate ed avviluppate, deliberazioni sempre intese ad ostacolare e rendere difficile.

Personalmente, valuto il livello di personale inutile negli uffici comunali in genere dal numero dei sensi unici che appaiono sempre in maggior quantità nei quartieri abitativi: non servono a nulla, se non a far perdere tempo ai residenti che, usciti di casa devono percorrere almeno due chilometri per tornarvi, con quattro semafori rossi da superare. Ma, evidentemente, danno tanto da fare a impiegati comunali annoiati e a ditte varie interessate alla cartellonistica ed alla sua manutenzione.

Questo è solo l’esempio più piccolo dell’attività scellerata di tanta parte di burocrati e politici, che hanno fatto la fortuna di avvocati, commercialisti, geometri e professionisti dediti unicamente a sbrogliare le matasse sempre più intricate in cui il cittadino si trova ad operare.

Il Sindacato, che dovrebbe difendere il lavoratore da tale stato di cose, ne è invece, per ideologia e per interesse (anche il sindacalista è un burocrate), il difensore e prosseno.

 

  • Rigidità del mercato del lavoro

Deriva invece dalla mancanza di fiducia nei liberi rapporti tra le persone, oltre che dall’assoluto disinteresse sui temi dei diritti personali, la difesa ad oltranza della rigidità del mercato del lavoro: quello che viene spacciato per diritto all’occupazione è in realtà un dovere di qualcuno a garantire il mantenimento ad oltranza di qualcun altro, senza che sia ben chiaro da dove derivino il diritto ed il dovere. Se una persona trova utile in un certo momento stipulare un contratto di lavoro con un’altra persona, offrendo a questa il modo di concorrere all’utile dell’attività economica svolta, da dove deriva l’obbligo della prima persona (datore di lavoro) di mantenere a vita la seconda, anche quando l’opportunità iniziale non sussiste più? Perché la seconda persona (lavoratore) non ha un obbligo analogo verso la prima? Non sono due individui uguali, nati con pari diritti e pari doveri?

Ma l’inopportunità di un mercato del lavoro eccessivamente rigido, dove risulta estremamente difficile al datore di lavoro di rescindere un contratto liberamente stipulato tra le parti, è dovuta soprattutto al danno derivante al lavoratore stesso da questo stato di cose.

Non parlo della difficoltà, in tale situazione, di giungere alla piena occupazione, data la diffidenza a stipulare contratti di lavoro che sono più indissolubili di un matrimonio.

Parlo del fatto che un tale regime trasforma il lavoratore in un servo della gleba, cioè in una persona che, una volta trovato un lavoro, non è più in grado, per il resto della vita, di abbandonarlo: la rigidità del mercato, infatti, vale nei due sensi: è difficile rescindere un contratto, ma lo è ancor di più trovare nuovi lavori, abbandonato il vecchio.

Così, mentre vediamo che in paesi dove i contratti di lavoro sono liberi accordi tra persone, liberamente stipulati e liberamente risolti, si hanno tassi di occupazione molto più elevati del nostro, risulta anche che in tali paesi le condizioni dei lavoratori sono migliori di quelle nostrane. Hanno un bel dire i sostenitori delle nostre usanze normative, che negli Stati Uniti il lavoratore è meno protetto del nostro: non risulta vi sia alcun flusso migratorio in uscita da quel Paese, né verso di noi, né verso altri Stati, mentre tutta l’attenzione degli agenti di frontiera americani è rivolta solo a fermare immigrazioni indesiderate.

Risulta, al contrario, che chi ha la fortuna di potervici stabilire, vi resta per sempre.

Questo perché il lavoratore americano non teme di rimanere senza lavoro, perché il lavoro (così come, del resto, la casa) si trova in giornata, dalla mattina alla sera, e si può quindi con facilità cambiare occupazione (o residenza) alla ricerca di quella più confacente alle proprie capacità ed aspirazioni. In Italia, invece, il lavoro lo si lascia in eredità al figlio, come cosa preziosa ed introvabile, e la minaccia di perdere il “posto” è la cosa più spaventosa che si possa prospettare ad un lavoratore.

Anche in questo campo l’ideologia antiliberista del sindacato si rivolta contro l’autentico interesse dei lavoratori.

 

  •  Il Sindacato come investitore dei soldi dei lavoratori

L’ultima bella impresa di sinistre e sindacalisti associati è stata quella del furto del TFR a danno del lavoratore. Con la scusa di preparargli, in futuro, una rendita sicura, gli si è sottratto il capitale, che era già suo, promettendogli i soli interessi (infatti, in caso di morte, il capitale resta alla società detentrice). La cosa avrebbe avuto un significato, se, messo il TFR a disposizione del lavoratore e non dell’azienda, gli si fosse permesso di scegliere il miglior rendimento possibile, offerto dal mercato, con tutte le garanzie assicurategli dalla sorveglianza dello Stato e del Sindacato. Invece i due ruffiani si sono accordati per spartirsi la torta a danno del loro pupillo: con l’obbligo di un versamento aggiuntivo a carico del datore di lavoro che rende non conveniente l’utilizzo del TFR per investimenti nel settore privato, si è lasciato al lavoratore la scelta tra il consegnare la cifra allo Stato (leggi INPS), che la utilizza per ripianare debiti attuali e senza fondo, con la promessa che il futuro sarà migliore (e questi soldi faranno la fine degli infiniti versamenti al sistema pensionistico nazionale effettuati dai lavoratori in tutti questi decenni: spariranno), oppure consegnare le cifre a società legate al Sindacato, che diviene così gestore dei soldi dei lavoratori, cioè loro controparte, invece di esserne il garante e difensore: persone di sinistra questo dovrebbero ben capirlo.

Il lavoratore avrebbe avuto bisogno di sorveglianti disinteressati della buona gestione dei suoi soldi: in questo caso i sorveglianti dovrebbero sorvegliare se stessi, e questo, si sa da lungo tempo, è un comodo modo di sorvegliare, ma un modo sicuro per farsi imbrogliare. Il Sindacato avrà interesse solamente a trattenere le cifre presso le società cointeressate, e non quello di garantire il massimo rendimento, o di suggerire l’utilizzo migliore.

In questo modo il Sindacato, sulla cui competenza a trattare i soldi altrui potremmo avere qualche dubbio, ma non sulla capacità dimostrata di procurarsene per sé, diviene controparte del lavoratore, del quale doveva difendere gli interessi. Le cifre in gioco sono enormi, e tali da ottundere ogni residuo scrupolo morale.

Con quale coraggio e coerenza si è potuta difendere una simile aberrazione nei consigli di fabbrica, dimostra solo il grado di soggezione ed inquadramento ideologico sviluppato a danno dei lavoratori dal Sindacato in oltre cinquant’anni di attività al servizio delle ideologie partitiche.

Quello stesso malanno che, nato nell’oligarchia, la mandò in rovina, fattosi in questa maggiore e più violento per la libertà vigente, riduce in servaggio la democrazia… Ebbene, parlando di quel morbo intendevo dire la classe degli uomini oziosi e prodighi. Di essi il gruppo più coraggioso dirige, il più codardo segue; e sono quelli che paragonavamo ai fuchi, gli uni forniti, gli altri sforniti di pungiglione… questi formano, con poche eccezioni, l’elemento predominante; ed è la sua parte più fiera che parla ed agisce, mentre il resto, seduto attorno alle tribune, rumoreggia senza tollerare chi parli diversamente…

Là dove tutti cercano di far denari, quelli per natura più regolati diventano i più ricchi. Ora, a mio parere, è di qui che i fuchi possono cavare moltissimo miele, e con grande comodità. Questi cotali ricchi van dunque chiamati pascolo da fuchi…La terza classe poi è il popolo: tutti coloro che lavorano per sé e si astengono dalla vita politica, gente che possiede ben poco. Questa classe forma, in democrazia, il gruppo più numeroso e sovrano…Costoro ottengono un poco del miele, quel tanto che resta dopo che i capi, sottraendo il patrimonio a chi possiede, e facendo distribuzioni al popolo, si trattengono la maggior parte per sé.

Platone, La Repubblica, VIII, XV, 564-565.

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